venerdì 20 novembre 2009

Quando credi di dover levare un sassolino dalla scarpa e poi scopri che è un macigno.

da: Republicamilano.it:

Milano, vigili a caccia degli immigrati
il bus-galera imprigiona i clandestini
Gli stranieri senza documenti vengono fatti salire su un bus con grate sui vetri: è il “bus-galera” usato per gli ultrà, utilizzato per bloccare i presunti clandestini e poi identificarli. A effettuare le operazioni sono i vigili del nucleo Trasporto pubblico, istituito per garantire la sicurezza su tram e bus, ma che di fatto si è specializzato in questi mesi nella caccia ai clandestini in città




Mio dio... questo non c'entra nulla con la sicurezza, solo con il creare odio, paura e insicurezza nella gente. Dove vanno a finire i diritti civili, dove va a finire il principio di presunzione d'innocenza?
Perché una persona dovrebbe aver paura di prendere i mezzi pubblici solo per il fatto di avere la pelle più scura... e dover controllare ogni momento: ce li ho i documenti? e se li ho dimenticati che mi succede? o se non li ho, sono un criminale solo per questo?
Io, se avessi la pelle scura, avrei paura in questo momento.
Ma ce l'ho chiara... però, non riesco proprio a considerarla una fortuna...
La polizia esiste per garantire i diritti e le libertà delle persone, impedendo a chi vuole ledere questi diritti di farlo, è per questo che esiste il concetto di presunzione d'innocenza, se la polizia dovesse per un errore calpestare i diritti di un innocente si troverebbe in un paradosso, cioè di fare quanto dovrebbe invece impedire. E' vero, questo rende il loro lavoro più difficile, ma più giusto. E non è solo questione del colore della pelle, perché quando un principio viene meno, la tendenza purtroppo e che molti altri principi lo seguano a ruota.
Avere la pelle bianca non ci permette di voltare lo sguardo da un'altra parte. Oggi va persa la presunzione d'innocenza per le persone di colore o con un accento strano, domani potrebbe capitare a quelle che parlano troppo, o a quelle che indossano un certo tipo di vestiti, o a chissà chi.
Un principio esiste per garantire se stesso, nella sua totalità. Se ne viene meno una parte, viene meno tutto.
E' un castello troppo fragile questa nostra società, questa democrazia, per permetterci di vedercelo crollare tra le mani.
Anche se ho la pelle bianca, dopo tutto, sento che un po' di paura ce l'ho anche io, perché negli ultimi due anni ho visto l'odio crescere e i principi vacillare, più e più volte, e mi ricordo i racconti sulla guerra e sulla povertà che mi faceva mia nonna, o quelli di una tenera novantenne che incontrai una volta con mia madre, quelli di un vecchio che era scampato ai campi di lavoro in russia, mio nonno no. E ancora, tutti i libri che sono stati scritti nella storia, tanti, troppi.
Qui, adesso non c'è la guerra, e la povertà la teniamo ben nascosta, come una parola scomoda, ma anche l'ultima volta è iniziato tutto così. Un principio che avevamo appena afferrato ha preso a vacillare ed in men che non si dica sono morte milioni di persone attorno a noi.
Che catastrofismo direte voi, beh, io non mi spavento quando vedo un coltello, un coltello è solo uno strumento, mi spavento quando vedo che il mondo di principi e certezze di chi lo impugna è andato in pezzi, perchè allora non c'è più nessun motivo o nessuna ragione per la quale questa persona non dovrebbe usarlo contro di me.
Credo che sia arrivato il momento in cui le persone debbano cominciare a parlare tra loro di questo, di come poter ancora garantire e come dare nuova linfa a questi principi alla base della società, ora che il mondo è di nuovo in rapida evoluzione, perché i sintomi di una malattia cominciano ad essere evidenti. Questi sono i principi della nostra costituzione, che non è quel pezzo di carta diviso in articoli che sta chiuso in qualche bacheca non so dove, quello è solo un riassunto scritto per comodità, la vera costituzione sta scritta nelle nostre teste e se si inizia a dimenticarla non è affatto una cattiva idea ricordarcela l'un l'altro.

giovedì 1 ottobre 2009

Pavor Nocturnus


Sono sempre stato una di quelle persone che, quando si arrabbiano con qualcuno o qualcosa, hanno bisogno di girare sui tacchi, sbattere la porta e andarsene via per qualche minuto. Fuggire col corpo là dove farlo con la mente non è possibile, non più almeno, e illudersi in un appagante lontananza solo per un poco. Non mi ci vuole molto. Di solito mi basta mettere qualche metro tra me e la fonte dei miei problemi, fumarmi una sigaretta o ascoltare una canzone di quelle giuste e poi sono pronto per tornare sui miei passi.
In questi giorni, invece, mi sento come se dovessi camminare fino al Polo prima di voltarmi indietro e muovere il primo passo verso casa.
Da troppo tempo non sbatto qualche porta ed è per questo che il viaggio si allunga. Le porte che sbatto sono invece quelle sbagliate, quelle di cui, in verità, non m’importa nulla. Non posso continuare a comportarmi come chi non vuole rompere niente. Non sono un elefante e questa vita, per dio, non è una cristalleria!
È la vecchia teoria del cambiamento: non può avvenire senza traumi. Tutto il resto è solo un’utopia, una bella favoletta che ci piace raccontarci per dormire tranquilli la sera. Ma arriva il momento in cui, nonostante tutto, continui a girarti e rigirarti sotto quelle stramaledette coperte ed allora non puoi fare altro. Apri gli occhi e ti guardi attorno. Una solo pensiero ha davvero importanza: capire quale, tra le tante, è la cosa che dovrai spaccare.




Ettore Zani – Ottobre 2009


domenica 19 luglio 2009

La vecchia pazza è sul marciapiede accanto alla strada, come al solito. È quasi la una di notte, ma la luce dei lampioni è forte e la posso seguire distintamente con lo sguardo. La vedo dalla mia finestra, quassù al quarto piano di questa casa del cavolo, protetto dalle mura uterine del mio normalissimo appartamento. Urla: “faccia di cazzo! Sei solo una Faccia di caaaazzzoooo!” con quella sua voce rauca e calda come un brodo di pollo. Sembra di sentire il suono di una corda troppo tesa, uno stridore di freni, come quelli del treno sulle rotaie.
Fa scintille con quella sua voce.
Urla alle macchine che si fermano al semaforo di fronte. Quando scatta il verde si calma per qualche minuto, poi riprende. È metodica come un operaio durante il turno. “faccia di cazzo! Faccia di caaaazzzoooo!”.
La guardo perché non vorrei che qualcuno le facesse del male. Se ne sta tutta sola, lì sul bordo della strada, portandosi appresso un carretto di quelli per la spesa pieno di bambole più spettinate di lei. È vestita in malo modo, trasandata come una befana.
La pazza abita nel condominio di fronte al mio. Se mi affaccio dalla cucina vedo il suo balcone popolato di bambole e peluche dallo sguardo stralunato.
Non le ho mai parlato. A volte l’ho incrociata per strada, sta spesso alla stazione durante il giorno, ma quando è successo ho abbassato gli occhi, oppure ho sorriso rintanando il cervello dentro le cuffie del lettore Mp3. Però mi sta simpatica. Qualche tempo fa il suo balcone era stato svuotato, le tapparelle erano abbassate e per la strada, la notte, era calato il silenzio. Ho pensato che fosse morta. Mi è spiaciuto.
Quando è tornata invece ho pensato a un TSO. TSO sta per trattamento sanitario obbligato: la polizia ti prende e ti obbliga a farti qualche giorno in casa di cura. Di solito ti imbottiscono di farmaci e poi ti rimandano fuori. Non è che ci sia molto altro da fare se si è soli. Non ho mai visto nessuno con lei, nessuno va mai a trovarla o si prende cura che non si faccia del male. Non so nemmeno se abbia dei figli.
Adesso il suo balcone è di nuovo pieno e, in qualche modo, di nuovo vivo. Chissà che si dicono quelle bambole nel buio? Forse loro vogliono bene alla pazza.
Questa notte è particolarmente agitata. Sembra che ci goda a urlare alle macchine. Io intanto continuo a guardarla. C’è quello stridore nella sua voce che mi attira. Provo a immaginare che farei se qualcuno la minacciasse, se si trovasse in pericolo. Potrei urlare. Potrei correre in strada e portarla via, so dove abita ma non son sicuro che mi seguirebbe. Sarei solo un’altra faccia di caaaazzzooo.
No, in verità so benissimo quello che dovrei fare. lo so bene perché c’è una voce dentro di me che me lo dice, quasi mi chiama per nome. Dovrei uscire di casa così come sono ora, in ciabatte e pantaloncini, scendere tranquillamente le scale, uscire dalla porta e camminare verso di lei guardando la strada. Dovrei arrivarle di fianco senza nemmeno salutarla e poi mettermi a urlare. Non so cosa dovrei urlare, immagino che ognuno abbia le proprie bestemmie da scoprire. Potrei cominciare dicendo le sue stesse cose, urlare anche io faccia di cazzo agli automobilisti per qualche minuto. Dopo un po’ è probabile che mi verrebbe in mente quello che devo urlare io. Ognuno ha i suoi fantasmi, basta solo farli venire a galla. Potrei urlare: “puttana! Puttaaaanaaaaa!” oppure, “che cazzo vuoi? Vatteneee” ma penso proprio che dovrei farlo sul serio per scoprirlo. Non è una cosa che possa venire così, non si può certo impazzire per finta, nemmeno per qualche minuto.
La pazza è sempre per strada. Io faccio il solletico alla mia tentazione di raggiungerla. Sarebbe bello urlare alle macchine. Quei fantasmi che abbiamo dentro la testa grattano perché, in fondo, loro vogliono venire a galla. Sono come la merda, non può sempre andare a fondo, prima o poi riemerge.
Chissà come facciamo noi, la gente normale? Dovrei saperlo io, faccio lo psicologo, ma non è mica così facile come si crede, nessuno sa dove abbiamo il merdaio e come lo teniamo chiuso. Immaginatevi che bella atmosfera là dentro, col caldo. Quintali di merda che suppurano e che continuano a lievitare sotto il peso di altra merda. Non ci resta che preparare degli sfoghi, delle valvole di sicurezza da cui lasciar sfiatare. Scoreggiare l’anima. Io lo faccio sul foglio bianco. O ancora, nella musica dentro la mia testa. Quando sono davvero triste faccio l’amore con “Stairway to heaven”. A parte un paio che a ricordarle mi viene da piangere, eh l’amore fa così, devo dire che resta la scopata migliore della mia vita.
Potessi raggiungerla davvero farei scintille anche io. Caverei gli occhi alla gente col fuoco delle mie parole, metterei in croce l’universo intero, getterei negli abissi l’umanità. Solo che l’umanità non se ne accorgerebbe. Mi passerebbe semplicemente
accanto, diretta dio solo sa dove. Come sempre, come ha sempre fatto.
Su questa grande arca qualcuno cade sempre fuori dal bordo, penso.
Nel frattempo la pazza se n’è andata e i semafori sono diventati gialli intermittenti. potrebbero anche rimanere gialli intermittenti in eterno.



Ettore Zani – Luglio 2009

giovedì 16 luglio 2009

Baciami, o mandami a cagare





“Non credevo di dover corteggiare anche la vita. Ero più dell'idea: baciami, o mandami a cagare!
Il fatto è che una simile stronzata me la sarei dovuta tatuare tempo fa, ma avevo la testa tra le nuvole e forse ho fatto male a non sbagliare quando ancora ero in tempo, quando c’era tutto lo spazio per raccattare qualche schiaffo in più.
Quindi bella, perché lo sai che sto parlando a te, non sono mica uno di quelli che fa discorsi ai muri, il più delle volte almeno. Bella, ti dicevo, baciami o mandami a cagare perché non ho tempo di corteggiare te più di quanto abbia fatto con la vita. Ormai lo avrai capito che sono uno di quelli che bruciano più del fuoco, ma solo quando il resto del mondo è già una brace, lo avrai capito che sono uno che ama fino in fondo, ma solo quando non c’è rimasto molto di cui godere. Sono uno che arriva in ritardo fin dalla nascita, uno stronzo buono. Ce ne sono pochi in giro, o accetti o molli il colpo.”

Alzo il bicchiere e brindo al vuoto. Tanto non mi ha sentito nessuno con questo fracasso. Sono in una specie di villa che fa da discoteca un po’ all’aperto e un po’ al chiuso. Un posto da fighetti per intenderci. Ma che ci faccio qui? Lei è ancora lì che balla, saranno otto o nove metri da me. Il suo vestito viola urla vendetta, i capelli le cadono sul collo attaccandosi alla pelle. Lei è una di quelle troppo belle, il classico caso in cui passi un mese a dirti che non è una buona idea e poi ci caschi comunque. È in mezzo al gruppo a ballare sulle note dei Ramones e intanto io sorrido perché so che sto facendo una cazzata. I wanna be sedated, ma ormai non c’è più tempo e svuoto il bicchiere con un ultimo sorso.
Prendi l’onda mi dico, prendi l’onda. Comincio a dondolarmi a ritmo, aspetto che le gambe abbiano compreso l’andazzo che mi circonda, devo lasciare il tempo al mio corpo di tornare a questa realtà che pare troppo accelerata. Ci vuole un poco perché i legamenti si scaldino, forse è solo l’alcool che entra in circolo. Quando muovo il primo passo non mi pare di essere in me, sono solo il tocco di tante braccia, e gambe, in questa mischia, sono lo sfiorarsi di pelle contro pelle tra perfetti sconosciuti. Vivo nella mia pelle per un po’, tra un passo e l’altro fino a quando non le sono di fronte e capisco che è ora di trasferirsi. Mentre ballo come uno scemo mi stampo una faccia idiota addosso e mi concentro. Ora vivo sulle mie labbra, sono interamente lì. Sento addirittura fresco.
Quando la bacio mi godo il momento dalla prima fila. Ne valeva la pena perché sento il suo sapore adagiarsi attorno a me. Io sono le mie labbra e le mie labbra sono il mio corpo, ed è come se avessi tutta lei sulla mia schiena, se il suo sudore mi colasse giù per il petto, se il suo fiato mi scompigliasse i capelli. È stato facile, senza parole e senza perché. Probabilmente non se l’aspettava ed è per questo che si è lasciata condurre in questo gioco senza ritrarsi. Quando ci guardiamo lascio andare il momento, il resto deve venire dopo, se verrà. Dico addio alle labbra e scappo verso i piedi. Abbasso gli occhi e mi sposto velocemente verso la fine della sala. Ecco c’è una porta, la imbocco e mi ritrovo su una terrazza all’aperto. Qui c’è un po’ d’aria. Là dentro mi sembrava di soffocare, ma non credo che fosse il caldo. Ora ho fatto la cazzata. Scendo da delle scale che non so perché sono lì, forse era scritto. C’è un giardino, piccolo e poco illuminato. Mi nascondo addirittura a me stesso.
Adesso non mi resta che aspettare. Vorrei non aver lasciato dentro il bicchiere. Tanto era vuoto. Accendo una sigaretta e conto i secondi. Arrivato a cento mi dico: guarda che non viene, ma che ti credevi. Ma poi rido. Non so se me ne importa davvero. Rido cazzo, rido come uno scemo e poi mi volto. Lei mi guarda dalla terrazza. Mi sa che crede che sia pazzo. E io rido, non riesco proprio a fermarmi. Rido, cazzo se rido. Sono piegato in due ormai. I suoi occhi sono sbarrati, sembra piangere. C’è una luce strana che riempie la sua figura, proviene dalla sala che le sta alle spalle. Mi fermo, il pensiero di averle fatto del male mi blocca e torno serio, mi faccio più sotto per non averla in controluce ma quando finalmente mi avvicino mi accorgo che sta ridendo pure lei. Ma va a cagare mi dico. Divento rosso ma tanto è buio. È piegata in due, non riesce a trattenersi la stronza. Salgo le scale a quattro a quattro. La prendo tra le braccia. “Scusa ma credo di non esser mai uscito dall’adolescenza”, le dico, “continuano a bocciarmi”. Mi guarda davvero strano. “Senti”, questa me la sono preparata da un po’ lo ammetto, mi prude pure il naso mentre gliela dico, “ti prego baciami, o mandami a cagare”.

Io non le so corteggiare le ragazze, è come con la vita, è che credevo che le cose andassero diversamente, che ci fosse il bianco e il nero e che tutti i grigi venissero dopo, non prima. Credevo che la vita potesse davvero essere come una canzone, che la potessi racchiudere in cinque minuti di follia, che potessi saltarle addosso e farla mia.

Sono arrivato a cento, mi volto e sul terrazzo non c’è nessuno. La sigaretta è finita. Mi domando se l’ho baciata o se no… mi domando se lei è davvero in quella sala o solo in una qualche stanzetta chiusa della mia mente, esiste davvero? Sono davvero qui? Confondo la realtà con la fantasia, passo dall’una all’altra come da una finestra piccola e vecchia, come nella mia vecchia casa di campagna, quando da bambino giocavo al mondo fantastico. No, non l’ho baciata. Sono uscito subito dopo aver bevuto il cocktail, le ho lanciato appena uno sguardo di sfuggita.
Mi costringo a rimanere nella realtà.
Forse per lei ne vale la pena.
Forse no.
Ma che importa.
È ora.
Rido.
Mentre salgo di nuovo le scale e vado verso di lei penso che sto per fare una cazzata.




Ettore Zani – Luglio 2009

giovedì 9 luglio 2009

Wash Machine


Sono troppo pulito,
troppo arido
nel mio esoscheletro di frac,
cucito su misura
per non lasciar passare
un filo d'aria
né di rassegnazione.

Vorrei sporcarmi un po',
andare al fiume
e fare dighe con il fango,
o pitturarmi il muso
come un indiano
cherokee.

Sporcarmi un po'
sporcarmi un po'

sporcarmi un po' l'anima.

E fare poi
i giochi degli adulti.
Quelli più pericolosi,
ma farli per davvero
e non con l'aria
d'aver fatto chissà ché
se tutto era per finta.



Solo dopo aver sporcato,
anche l'angolo più piccolo
e imbrattato pure i sogni,
solo allora, poi, pulirmi.

Pulirmi un po'
pulirmi un po'

pulirmi un po' l'anima.





Ettore Zani - Giugno 2009