venerdì 29 febbraio 2008

Amore muto

Tolsi il grembiule, raccolsi i capelli, arrivai sul loggiato correndo. Mi bloccai carica di sconcerto di fronte a quel signore che urlava il mio nome.
Ma che voleva, farsi ammazzare? C’erano tre guardie sotto i portici, soldati semplici che lo guardavano stupiti. Per fortuna sua sembravano incerti sul da farsi cosi mi nascosi dietro ad una colonna e mi misi a fargli cenni fin quando non mi vide. Portai il dito di fronte alle labbra. Silenzio, silenzio per l’amor del cielo, implorai con gli occhi. Il colonnello non era nell’abbazia altrimenti lo avrebbe già fatto arrestare e, probabilmente, fucilare.
Lui, quando s’accorse della mia presenza, si zittì all’istante e prese a fissarmi con occhi assetati. Lo avevo già visto, al mercato e anche in chiesa e poi ancora per le strade, quando quegli occhi spuntavano chissà come tra la folla che mi insultava mentre passavo nella macchina del colonnello. Li avevo notati subito quegli occhi, così intensi, e non solo perché erano forse gli unici a non mostrarmi odio, o invidia, ma perché nel modo in cui mi guardavano, osservavano, spogliavano c’era un sapore diverso e non la sensazione di sabbia sotto la lingua che mi riempiva di vergogna quando stavo accanto al gerarca.
Eppure, in quel momento fossi stata nuda, li sotto le arcate dell’abbazia che davano sulla piazza, mi sarei sentita meno spogliata tanto quegli occhi mi ricordavano chi ero: una sporca sgualdrina venduta ai tedeschi.
La gente aveva smesso di additarlo ed anche le guardie sembravano ora intente a parlare d’altro, solo io continuavo a fissarlo, i miei occhi nei suoi ed i suoi nei miei, un dialogo muto.

- vattene, ti ucciderà se ti trova qui quando torna.
- non me ne andrò – non c’era dubbio che dicesse questo anche senza muovere le labbra.
- pazzo, pazzo, pazzo. – erano le mie lacrime a dirlo. – pazzo, ma anche - ti amo - e non avrei voluto dirlo, così in quel modo, entro quel silenzio, perché già sapevo che tutto ciò avrebbe significato la sua morte.


*


La guerra non è cosa che si addica ad una donna, è sporca, è stupida, è violenta. Ma in quegli anni la vita non guardava in faccia nessuno, arrivava di notte come un ladro nell’ombra e si portava via quel che avevi.
La guerra è una cosa dolorosa e questo sì, va bene per una donna, lo può sopportare, lo ha sempre fatto.

Il colonnello era arrivato un mese prima col suo seguito personale di segretari e corpi speciali, dovevano presenziare ad una riunione segretissima, ma questo lo venni a sapere dopo. Si installò subito nell’abbazia dove io mi ero rifugiata dopo l’8 settembre con mio marito Giuseppe. Le strade della città non erano il posto migliore per un ex-capo del partito fascista.
Quando arrivarono i Tedeschi, non erano passati che pochi giorni, mio marito si senti nuovamente sicuro. Quando poi il colonnello lo volle mandare lontano col compito di riunire i maggiori esponenti fascisti rimasti in Italia, se ne sentì addirittura fiero. In realtà il colonnello guardava me mentre impartiva gli ordini. Mi sorrideva, probabilmente con in testa ben chiara l’immagine di Giuseppe già morto in un pozza di sangue.
Lo rividi un ultima volta soltanto, ma era già morto, che penzolava da una fune condividendo la sorte di Mussolini. Dei bambini gli tiravano sassi e lo facevano dondolare per gioco. Ma questo fu tempo dopo, quando anche il colonnello era già polvere tra la polvere, come il mio cuore.
Appena Giuseppe partì il Colonnello mi prese sotto la sua ala, ero ancora bella, piacente, e mi mostrai ben disposta verso di lui perché era la mia sola speranza. Si divertì con me i primi giorni, trattandomi come una cagna, prima chiamandomi a sé e poi gettandomi via, mostrando il suo disprezzo per me e per quel marito imbecille che si era fatto mandare a morte credendosi un eroe.
Non me ne importava nulla, era la guerra mi dicevo, e se volevo vivere dovevo essere quello che al colonnello piaceva che fossi. Non era ributtante, anzi era un bell’uomo e non mi sembrava così disumano come si raccontava in giro, solo molto pericoloso.
Continuava a scusarsi con i frati per il disturbo, così diceva, e poi li rassicurava che entro poche settimane sarebbero tornati alla loro casta vita di devozione al signore.
Ogni giorno spariva per svariate ore, poi la sera tornava e se era dell’umore adatto mi chiamava a sé per divertirsi. Le cose cambiarono in fretta, però, le notizie dal fronte non lo soddisfacevano ed il suo umore era sempre più cupo. Spesso non mi toccava neppure, allora gli bastava guardarmi e compatirmi, sentire che ero sua ma non nel modo in cui lo è un’amante, sarebbe stato banale per lui, no, dovevo essere sua come lo sarebbe stata una bestia. Stoltamente sua, fedelmente sua, istintivamente sua.
Cercai di fingere meglio che potevo, assecondare quello che credevo essere solo uno stato umorale ma per lui non era abbastanza e dopo qualche giorno iniziò ad essere più duro. La sua vera natura emerse dalle acque torbide in cui mi aveva sommerso. Quando ero nelle sue stanze mi strappava l’amore o mi percuoteva a sangue con la stessa facilità con cui ci si gratta il naso e allora divenni sua, davvero sua, come voleva. Gli bastarono pochi giorni.
Dico questo non per difendermi o sminuire la mia colpa di traditrice, ma per farvi capire che tipo di persona fosse: tanto bonaria e banale in superficie quanto sanguinaria e perversa appena le si dava il tempo di far trasudare la sua vera natura da sotto la crosta. Una crosta molto sottile in verità.

Fu in quei giorni che venni a sapere a che tipo di riunione segretissima doveva partecipare. Capii tante altre cose e l’orrore che mi fecero non è descrivibile perché non potevo condividerlo. Gli altri, là fuori, non sapevano, sospettavano certo ma non sapevano davvero cosa succedesse. Termini come questione ebraica, gas, campo di concentramento continuavano a ripetersi tra lui e gli altri gerarchi. La guerra stava volgendo male e tutti erano ansiosi di velocizzare la tanto agognata Endlösung. Da principio non capivo bene, poi a furia di rubar parole qui e là mi resi conto di che razza di “soluzione” parlavano.
Sembrava che usassero un codice ma era talmente ovvio quello che si celava dietro i loro sorrisi sghembi che quelle parole epurate erano ancor più crudeli.
Sentii dei numeri. Quasi svenni. Parlavano di milioni di corpi, non persone ma corpi, oggetti, da sotterrare o bruciare il più rapidamente possibile.
La mia non era più neppure vergogna, vagavo per i corridoi dell’abbazia fin quando non mi chiamava ed allora mi presentavo a lui ed anche io ero solo un corpo. Una persona no di certo, come avrei potuto esserlo?
Mi resi conto che tanto valeva morire. Ero in macchina con lui, un pomeriggio invernale ma pieno di sole. Guardavo fuori dal finestrino della macchina come una cieca mentre il colonnello mi toccava tra le cosce. Il mio sesso era arido e mi doleva al tocco dei suoi guanti di pelle. Nulla aveva più significato e la morte mi si presentò come unica possibilità, non si trattò neppure di una decisione perché altre scelte non c’erano, altre possibili scelte non avrebbero significato nulla.
Poi vidi quegli occhi.
Erano apparsi tra la gente senza motivo e senza motivo, o perlomeno per un motivo che non capivo, mi guardavano in maniera diversa. Li incrociai per qualche attimo e tanto mi bastò per riscoprire in me una goccia diluita di umanità, un sospiro di curiosità che avrei invece dovuto ricacciare indietro e mai più pensarci. Ma mi sembro tanto incredibile allora che la mia natura umana, che il mio essere donna, provasse a riemergere ancora, nonostante tutto. Mi aggrappai a quegli occhi con le unghie di un’anima ferita e quando li rividi il giorno dopo in chiesa avvampai. La domestica che mi seguiva credette che stessi male e mi passò il ventaglio per farmi aria.
Col passare dei giorni imparai a riconoscerne il viso ed i tratti. Era un signore di qualche anno più anziano di me. Una barbetta rada gli ricopriva il mento accennando qualche pelo bianco tra gli altri neri come la china, gli zigomi erano marcati e le guance molto magre. I capelli ricci, quasi sempre scarmigliati, gli ricadevano sul volto passando come un’ombra sopra gli occhi, come un segno d’interpunzione tra i nostri dialoghi silenziosi.
Non disse mai una parola, mai. Poi scomparve.
La situazione della guerra appariva sempre più critica e il colonnello aveva posticipato la partenza più volte, continuava a parlare e discutere, spesso riceveva telefonate dalla Germania e sputava in tedesco nella cornetta per ore. Io fuggivo da lui ogni momento e cominciai a frequentare le cucine dell’abbazia per non pensare a nulla. I miei propositi di suicidio erano morti quel pomeriggio in cui l’aridità del mio sesso si era contrapposta al fiume in piena scaturito dai miei occhi, ed anche quando poi il mio signore misterioso scomparve non ebbi più quel pensiero. Mi facevo bastare la mia non vita per quello che era, rimiravo la lama lucida dei coltelli nella cucina ma poi la usavo per tagliare qualche verdura invece dei miei polsi. La scintilla di vita che mi aveva colto non riusciva a sopirsi nuovamente ed anche se era ormai tramutata nella disperazione dell’abbandono era comunque altra cosa rispetto alla totale aridità di prima, prima di lui.


*


Un pomeriggio sentii urlare il mio nome a squarciagola, era una voce profonda ed esasperata che proveniva da oltre le mura, giù dalla piazza sulla quale si affacciava il loggione. Ero in cucina, tolsi il grembiule, raccolsi i capelli e mi misi a correre. Sapevo che era lui, che era tornato e sentivo anche, come un peso opprimente sul petto, che era la fine.
Non sapevo ancora come sarebbe avvenuto ma quel suo gesto era la firma di una condanna. Raggiunsi le arcate e quando mi nascosi dietro la colonna mi resi conto di quanto enorme fosse quel suo amore mai detto e di come ora mi chiamasse a gran voce, si aprisse al vento, lasciandosi trasportare in alto ma già pronto a cadere. Era per me, ed io col solo fatto di esistere lo stavo mandando a morte. Il pensiero mi colse improvviso: silenzio silenzio gridai con le lacrime degli occhi, non fare il pazzo ti ucciderà.
Lui, alla fine, rimase in silenzio, e come sempre, senza voce mi parlò.

- Amore, in una terra di sconforto – mi disse – forse non è possibile, eppure io ti amo. Amore in questa vita dominata dalla morte, non è possibile, eppure io ti amo, amore dilaniato dall’onta e dal tradimento non è possibile eppure io ti amo!

E quando gli risposi che lo amavo anche io, perché non seppi mentire, l’ultima lacrima che mi rimaneva cadde per terra con l’improbo compito di provare a mitigarne l’arsura. Una goccia sola per irrigare il mondo. Che follia.
Dirgli il mio amore fu il mio unico e vero tradimento.
Lui si voltò e se ne andò, credo felice. Non lo rividi mai più.

Dopo tre sere il colonnello mi chiamò a se e mi comunicò che quel signore si chiamava Fausto. Solo questo, poi mi caricò su una macchina e mi spedì da qualche parte nelle campagne della Baviera. Così non morirai, mi disse ridendo.
- No, mia cara, tu non morirai. Morirò io, morirà quel Fausto come è morto quel vile di tuo marito, moriranno tutti! Tutti! Ma tu no, e sai perché? perché io lo voglio!

E intanto rideva, rideva, rideva.


Zani Ettore – Gennaio 2008

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Un bella storia, anche se appare un po' incompleta. Io comunque sento la mancanza dei tuoi raccontini "giovanilisti" (anche se ora si direbbe giovani con la g doppia). Baci.

EttoreBilbo ha detto...

eheh... ciao chiara e grazie del passaggio. Hai ragione è da un sacco che non scrivo una storia che parli di giovani anche se ne avrei voglia...
più che altro è che da un sacco scrivo racconti quasi solo per esercizio, partendo da incipit forzati.
però una piccola cosa ce l'ho, magari la posto in questi giorni :-)

bai bai
Ettore