sabato 30 giugno 2007

Sembrava Audrey Hepburn


Sembrava Audrey Hepburn. Una Audrey Hepburn strappata ai suoi luccicanti anni sessanta in bianco e nero e trasportata in un paradiso urbano del terzo millennio: un parcheggio sotterraneo illuminato fiocamente da luci al neon.
Camminava su e giù tra due colonne vestita di un rigoroso nero, elegante e bella come lo deve essere una diva. La guardavo, seduto nella mia macchina, mentre aspettavo Giulio che m'aveva chiesto un passaggio dopo il lavoro.
La mia piccola attrice fumava una sigaretta aspirando con grazia da un lungo filtro in una posa fotografica, il fumo le usciva lieve dalle labbra e saliva su, verso il soffitto scuro. Nell'abitacolo stretto da cui la guardavo, invece, il mio fumo mi faceva lacrimare gli occhi ma non volevo che lei mi scorgesse, come sarebbe sicuramente successo se fossi uscito dal mio utero di metallo.
Era un sogno ad occhi aperti, la dea dei miei desideri d'adolescente. La stessa immagine che ammiravo seduto sulla poltrona di un cinema molti anni fa quando ero ancora un giovane che conosceva la parola domani. Ora il parabrezza della mia Fiat ammaccata era il grande schermo sul quale scorreva la pellicola amara dei sogni che sfumano. Lei, una bellissima Audrey ancora giovane col taglio degli occhi da gatta senza rughe ed io, un vecchio imbacuccato nel suo completino da impiegatuccio con quasi quarant'anni in più di quelli che avrei dovuto avere. Volsi la testa a sinistra sentendo il Din dell'ascensore giunto al piano, era Giulio. Anche lei si voltò curiosa. Per un attimo mi sembrò delusa di vedere soltanto un altro sessantenne in completo grigio. Stava sicuramente aspettando qualcuno. Si rigirò su se stessa e riprese la sua passeggiata su e giù, facendo risuonare l'eco dei tacchi alti che accarezzavano il cemento.
Il buon vecchio Giulio arrivò alla mia macchina facendomi un cenno di saluto amichevole, aprì la portiera con la solita irruenza da studentello che gli era rimasta dai tempi dell'università e disse il suo ciao un po' roco.
Lei guardò un attimo nella nostra direzione, doveva essersi accorta di me adesso; mi chiesi cosa avrebbe potuto pensare di un uomo, di un vecchio, che se ne sta rintanato nella sua macchina a fare lo spione: forse nulla, forse non gliene frega niente, forse pensa che il mondo è pieno di sporcaccioni.

"Chi è quella donna", chiesi.
"La moglie del mio capo", mi rispose Giulio mentre accendeva anche lui una sigaretta, "Per favore fammi fumare qui che mia moglie mi strozza se lo faccio a casa".
"Certo fai pure, se non ci si aiuta tra amici".

Lo guardai perplesso, era davvero Giulio? Quel ragazzo asciutto che aveva pisciato sul copertone del preside di Facoltà una mattina piovosa di Settembre. Ed io, ero davvero io? Ebbi l'impressione fuggevole di guardare attraverso il mio corpo e vedere solo un ombra sbiadita adagiata sul sedile del guidatore. Che senso aveva la mia vita in quel momento? Me lo domandai davvero, come fanno, credo, i suicidi prima di buttarsi dal cornicione. Non avevo certo voglia di uccidermi eppure l'avvicinarmi un attimo al pensiero della morte m'inebriò. Io posso mi dissi mentre il fumo di Guido si aggiungeva al mio costringendomi infine ad abbassare un finestrino, io posso guardare la morte con orgoglio, mentre quarant'anni fa ne avrei avuto paura. Allora la morte si sfidava proprio perché se ne aveva paura.

"Come si chiama?", Gli domandai ancora.
"Sabrina, credo".

Sorrisi.


Zani Ettore - Aprile 2001

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