martedì 12 gennaio 2010

Cielo di vetro



Certi giorni aveva la sensazione di non poter fare altro, in quella città, che contare i passi tra un albero e l’altro, percorrendo il controviale come sempre, diretto ad una casa dal sapore stantio. Una casa che non lo è del tutto, ma che per lo meno si avvicina all’idea. Sette, otto, nove, dieci, undici. E poi di nuovo: uno, due, tre, quattro e via così. L’aria stanca della sera tra i capelli.

Amare la città è un brutto segno, indice di una relazione difficile fin dal principio. Come con certe donne, o ragazze, preferiva ancora chiamarle ragazze, che riescono ad attirarti come sirene nonostante tutto, nonostante quel no che senti crescere dentro. Non è il caso, non sarebbe, ma che importa. E così lui camminava. A volte a testa bassa seguendo il profilo dei palazzi con la coda dell’occhio, certe altre più spedito. Erano le volte che inforcava le cuffie e qualche musica gli infondeva una sicurezza, tanto ipocrita quanto melodrammatica, di piacere a qualcuno, per forza, come un assioma della vita che tra quel brulicare di persone ce ne fosse una, una speciale, da riassumere anche in un solo sguardo e poi bearsene per i prossimi dieci passi. Per questo contava. Trovava interessante poter suddividere, senza sapere bene cosa. La vita? L’esistenza? L’amore? Procedere lungo il cammino frazionando ogni cosa. Se ne fosse valsa la pena si sarebbe fermato, in una di quelle sere, a guardare in alto, oltre i tetti delle case, immaginandosi di calare da lassù come un velo nero di rancore. Perché amare la città vuol dire rimanerne delusi. Viaggio dopo viaggio, albero dopo albero, e poi sotto terra, dove lo sferragliare dei treni ti assorda, e poi sopra, dove la puzza degli autobus ti infiamma le narici, e poi in mezzo al nulla, in quello spazio tra l’anima e l’uccello, dove una prostituta ti chiede da accendere guardando di sottecchi se val la pena di abbassare la lampo della giacca o tenerla chiusa.

La tenne chiusa. Lui aveva già ripreso la strada.

La verità è che non sempre vedeva tutto così buio, anzi il più delle volte erano i sorrisi ad arrivargli agli occhi, per la strada, sugli autobus, erano i padri soli che delicatamente svegliavano la figlioletta per dirle che era ora di scendere, la madri sbuffanti in attesa di un aiuto per salire quei maledetti gradini con la carrozzella ed il soffio di un grazie tra le labbra quando l’ottenevano. O i ragazzini all’uscita dalle scuole, capaci di mescolare tutti i loro accenti, come le loro puzze adolescenziali, in un enorme melting-pot al retrogusto di big bubble.

Eppure, quella sera dei sorrisi non rimaneva un gran ricordo. Si erano persi senza fare troppo rumore, come assopiti, e lui non se ne curava. In metropolitana aveva assistito ad una scena che gli dava da pensare. Non lo aveva urtato e nemmeno indignato, si chiedeva se dovesse esserlo, però non era quello il punto. Non riusciva a giudicare del bene o del male di quanto aveva visto. Sentiva, come si sente un sassolino nella scarpa, che semplicemente non avrebbe potuto. No, non era quello il punto. Non era una morale che sinceramente si stava scordando di innaffiare, era piuttosto la consapevolezza della solitudine ad avvinghiarlo, a prenderlo letteralmente per le palle.

La cosa che aveva fatto quella donna non la rendeva buona o cattiva; la rendeva sola, dannatamente sola in mezzo ad un mare di altre donne o uomini pronti a fare lo stesso, o simili, in qualche altra dimensione di quella stessa città. Come se non ci fossero due angoli in tutto il creato che condividessero lo stesso piano.

Avevano un qualche futile valore, allora, tutte le motivazioni, i perché, i pregressi sconosciuti che l’avevano portata là, dietro quella colonna, a infilarsi un sacchetto di cellophane, raccattato in fretta dai rifiuti, sotto i pantaloni, dentro le mutandine, fin dentro la vagina, riempito in fretta di dio solo sa quale droga?

Più se lo domandava e più si rendeva conto che non gli interessava sapere se avesse bisogno di soldi, se fosse povera o ricca, se dovesse sfamare una crisi d’astinenza o semplicemente la propria avidità, se avesse a casa un figlio a cui dare da mangiare o un marito dalla mano pesante. A lui non fregava un cazzo di tutto questo. L’unica cosa importante era sentirne la solitudine e rendersi conto che anche lui la condivideva, che non c’era motivo al mondo per cui le parti non potessero essere invertite. Che tutte quelle condizioni su cui si stava interrogando erano come fiocchi di neve caduti da un cielo di vetro, la cui violenta casualità nel cadere era dovuta a null’altro che a quella fottuta solitudine.

Sette, otto, nove… e poi un ultimo passo fino al cancello. Si chiese se avrebbe potuto fare qualcosa, non per quella donna o forse anche. In generale, ma poi infilò la chiave e i pensieri scomparvero. Qualunque cosa facesse non era comunque abbastanza. Quasi mai. Il segreto era continuare a farla e sperare, nel frattempo, che i sorrisi si svegliassero in fretta.





Ettore Zani – Gennaio 2010

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