domenica 10 maggio 2009

Il giorno del giudizio


Ecco io adesso non vorrei che questo disagio, risvegliato in me dal suo apparirmi davanti repentino e inaspettato, possa venir notato dal signor K che mi è sempre stato così caro, un secondo padre per me, dopo che il primo s’è eclissato nelle pieghe della colpa e del rimorso. Non vorrei che questa ruga, mia compagna fedele da qualche anno ormai, si ricurvi ancor di più dentro se stessa, strizzando l’occhio, quasi, ai sospetti ed alle ansie del signor K. Lui mi vuole bene, io lo so. Mi adora. Una mattina di qualche tempo fa me lo disse, mi prese da parte sotto il portico della casa mentre un raggio di sole lo importunava furbesco rimbalzando su un occhio, ma il signor K non lo dava a vedere e rimaneva ritto come un soldato impettito di fronte al proprio dovere, fosse anche la morte; ma era la vita, la vita per lui e lo si vedeva nel modo in cui gesticolava febbrilmente, nella piega strana presa dalle labbra, quel sorriso imbarazzato di chi sa cosa vuol dire ma non ha il coraggio e lo si vedeva nell’occhio rimasto all’ombra, luminoso più dell’altro.
- Sei un fiore sbocciato in inverno mia cara - mi disse, - un oggetto raro e prezioso. Tu sai che io sono solo un vecchio che ha perso tutto e che nulla si poteva aspettare più dalla vita, finito il tempo dei sospiri e delle vaghe promesse era già iniziato per me un lungo e lento declinare, un tramonto che nessun colore addolciva ma solo uno spegnersi silenzioso, un raggrinzirsi di ogni stimolo e di ogni felicità. Ero una terra arida e fredda che aspettava solo l’ultimo alito di vento per venir spazzata via.
Eppure non sapevo che un piccolo seme resisteva ancora, che una scintilla di vita cresceva inesorabile, ancora lontana, ancora inconsapevole di me come io di lei, ma cresceva e ogni secondo che passava si avvicinava di un passo. Quale congiura del cielo ci ha fatti incontrare mia cara, quale destino inaspettato, che Dio sia ringraziato, quando ho aperto la porta di questa casa, un giorno, e tu mi sei apparsa davanti orfana della vita che ti era stata tolta, tu come morta indirizzata al cospetto di un cadavere più freddo del tuo. Eri senza una casa e io te l’ho data ma tu mi hai donato molto di più, mi hai donato una figlia, un cuore da ascoltare la notte, da vegliare ed amare teneramente, quel lascito che mi era stato a lungo negato, da lasciare al mondo perché ne gioisca come ne gioisco io.
Ti guardavo rinascere, guardavo ogni tuo sorriso, i primi più timidi, come un alba, fino a quelli più grandi e splendenti. Io ti ho vista tornare al mezzogiorno e brillare nella tua luce sopra le teste della gente ed ora il tuo tepore ridà vita anche a queste stanche membra, guardami, che cigolano, vecchie e stanche, ma cigolano felici. Mi sto sbriciolando nella mia vecchiaia ma so che se le mie gambe malate o le mie braccia deboli e magre potessero parlare, ora riderebbero, riderebbero con gusto e con una tenacia che non hanno mai avuto nemmeno quando erano forti e sane. Forse non sai quale gioia sia per me il vederti allegra e contenta quando sotto questo tetto regali un fiore, una tua perla, al mondo, scherzando e chiacchierando spensierata, così che anche la casa, con saggezza, sembra approfittare dei tuoi momenti d’euforia per prepararsi ad una festa, riempirsi di ghirlande colorate e nastri e coriandoli e… -
Solo allora lo zittii, con le lacrime agli occhi, poggiando due dita sulle sue labbra, sentendole così sottili da farmi mancare il respiro per paura di spezzarle e vederne uscire l’anima, candida e pura in un ultimo bacio. Presi il signor K per mano e lo condussi fuori sul prato, seguendo con la lentezza necessaria i suoi passi in modo da assaporare la vita fino in fondo, per gustarne la bontà e la sincerità come mai prima le avevo potute conoscere.
Ed è con questo passo che abbiamo camminato insieme fino ad oggi, quando lei è riapparsa ed io mi sento come se sognassi, se nulla più fosse reale, se non fossi mai rinata né mai giunta in questa casa che mi ha accolta e ridato la vita.
Siamo in tre, qui ed ora, e prendiamo un tè discorrendo falsamente ed io la guardo, poi volgo il viso e incontro il signor K e ne l’una, né l’altro, mi sembrano più reali dei demoni e degli angeli che mi venivano raccontati da bambina: pagine di un libro dall’odore stantio con la carta fine e antica, preso da un cassetto logoro col solo scopo di educarmi alle gioie ed ai dolori che avrei patito e poi riposto nuovamente. Fino alla prossima lezione.
Ecco questa è la mia ultima lezione, non ne accetterò altre perché ho imparato abbastanza, nel bene e nel male. Appoggio la tazza e guardo mia sorella negli occhi mentre lei ancora sorseggia facendo finta di nulla, senza che nessun segreto che possa turbarle il sonno torni a galla arrossandole le gote o appannandole lo sguardo, lei no, lei non ne è capace, come nostro padre non ha mai conosciuto il rimorso.
Avevo scordato il mio amore per lei, lo avevo sepolto per non seppellire me stessa, ma certi morti risorgono prima che il signore possa chiamarli a se per il giorno del giudizio, essi si giudicano da soli e nella propria colpa trovano la forza per risorgere, se ne nutrono avidi come quei vampiri, quei mostri di cui si racconta per gioco la sera, per spaventarsi un poco al solo scopo di sentirsi più vivi e meno infreddoliti. Succhiano il calore da chi gli sta attorno, senza cattiveria né malizia, senza sentir nulla in effetti, né piacere, né dolore.
E come amo il signor K. Anche lui amo, senza mai dimenticarlo da quando mi accolse con sé. Amo per quel suo dolore pacato che mi ha porto in dono, siccome non aveva altro, ed io che sono vampira come mia sorella ho bevuto fino in fondo ed è stato solo un caso, un fortunato incidente, che nel farlo agli abbia alleggerito il cuore e rigenerato lo spazio per qualche grammo di felicità.
Solo me stessa odio, per non essere mai stata altra che me stessa.
Beviamo il tè, tutti assieme, ma la mia tazza è posata sul tavolino e non un sorso ne ho versato. Sorrido e rimango a guardare mentre il veleno produce i suoi effetti.
Ho ucciso un padre per troppo amore, e ora ne ucciderò un secondo, e poi una sorella, e li seppellirò in giardino per farmi compagnia e su una tomba pianterò la rosa rossa del peccato mentre sull’altra il giglio bianco della purezza e rimarrò a guardarle fino a quando non calerà il tramonto e poi ancora, fino a quando non cesserà il mondo e si disferà il creato, rimarrò a guardare quando finalmente arriverà il giorno dell’apocalisse e loro usciranno dalla tomba, per vedere se il giudizio di Dio è davvero come mi hanno detto, per una volta, una sola, la più importante: giusto.



Ettore Zani – Aprile 2009

1 commento:

Anonimo ha detto...

ciao lo avevo letto - un po' velocemente - sul borgonarrante. Lo ho riletto con calma -mi sembra sia rimasto pressochè uguale- ne ho potuto assaporare il fascino.

alisa
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