giovedì 13 novembre 2008

Il tempo fuori dal tempo

Enrico sentiva la porta di servizio che sbatteva piano, a intervalli regolari, nella brezza d’ottobre che soffiava per la casa. sentiva il vento che spazzava l’arida terra rossa oltre le mura di cinta e se chiudeva gli occhi gli sembrava di sentire ancor più lontano, forse i rumori della clinica veterinaria dei Green: la jeep scassata di Philip che imprecava su per la collina e la voce gentile di sua moglie Margaret che lo implorava di andare piano. E ancora, l’abbaiare dei dingo, fuori dal cancello, il tonfo sordo ed ovattato degli wallabe che saltellavano allegri nell’imminenza dell’estate. Sentiva il grattare di quei pochi animali costretti in gabbia, sentiva i lamenti di quelli che ancora sognavano della loro libertà che, per un motivo o per l’altro, era ora limitata.

Se ne stava sdraiato su d’una specie di sofà il cui colore originale si era smarrito sotto le innumerevoli macchie di caffè, lungo e brodoso. I capelli biondi oziosi sulla fronte e le dita delle mani che tamburellavano sulle ginocchia un ritmo sincopato.

Oggi per lui era vacanza, niente uscita col gruppo. Gli altri erano andati tutti a est, seguendo una delle antiche vie dei canti degli aborigeni. Marc era convinto che arrivare ad Uluru per quella via invece che seguendo la strada asfaltata fosse più romantico e così si era portato dietro i ragazzotti dell’università. Da parte sua, Enrico credeva che fosse semplicemente più stupido ma aveva preferito non dirlo, limitandosi ad inventare una storta alla caviglia. Marc aveva sorriso con quell’aria svagata e furbetta che solo i surfisti sanno far uscire dal cilindro ed aveva raccolto lo zaino prima di sibilare un ok tra i denti.

Ora, sdraiato sul sofà a godersi il silenzio Enrico si era messo a pensare al passato più recente. Aveva già visto Uluru, le Ayers Rock nel nome inglese, parecchie volte ormai ed aveva anche seguito gran parte delle antiche vie aborigene nella zona. In effetti, era nei Northern Territories da sette anni.

Dopo la laurea in biologia aveva lasciato Roma per una vacanza di due mesi, convinto di rivedere l’ombra del colosseo a breve, invece non era più tornato. I primi trenta giorni li aveva passati girovagando per lo stato di Victoria con un professore di antropologia di Melbourne, mezzo aborigeno, che per qualche strano motivo era rimasto affascinato dalla nota esotica della sua italianità.

Si erano conosciuti all’aeroporto per una buffa quanto banale coincidenza: avevano entrambi lo stesso tipo di bagaglio, a parte il contenuto naturalmente, per cui quando al posto delle preziosissime statuette aborigene che stava portando al museo il professore aveva trovato delle mutande Calvin Klein per poco non aveva avuto un infarto. Il problema era stato risolto da un valente speaker che armatosi di pazienza aveva dapprima calmato il professore e poi scovato nella lista dei passeggeri il nome di Enrico.

La fine della storiella si era svolta invece in uno dei caffè dell’aeroporto dove i due neo-amici si erano ritrovati a chiacchierare in attesa dell’autobus, col professore che cercava di spiegare al giovane che si trovava di fronte l’incommensurabile valore dei reperti che aveva scambiato con qualche paia di mutande.

Forse, però, sarebbe più corretto dire che la storia non si era più conclusa da allora. Enrico era rimasto rapito dall’eccentricità di quell’uomo di mezz’età dalla pelle mulatta e dagli occhi grandi, che recitava a memoria i canti degli antenati che al tempo del sogno avevano creato il mondo.

Senza neppure sapere il come ed il perché l’intero anno successivo lo aveva impiegato a Melbourne per prendere la laurea in antropologia e dopo qualche altro mese, passato a far la fame per le vie della città, era finalmente riuscito a farsi assumere in pianta stabile dall’università che lo aveva spedito nei pressi di Docker River, nei territori del nord, dove avrebbe potuto studiare l’insediamento di Kaltukatjara a stretto contatto con gli ultimi aborigeni d’australia.

Era felice. Si sentiva in pace con se stesso, per quanto fosse banale, per aver raggiunto quel sogno che lo aveva travolto appena messo piede nella terra dei canguri. In Australia non puoi non seguire i tuoi sogni perché sono loro a crearti, a cantarti in una delle loro incredibili storie.

A Docker River aveva trovato Marc, un ragazzo di poco più anziano di lui. Californiano, dall’occhio furbo e schietto. Un altro matto che si era ritrovato a seguire la via dettata dai sogni, che dalle spiagge della California lo avevano portato lì, nella desolazione desertica dei territori del nord.

Quei due, i primi tempi, avevano viaggiato talmente tanto da farsi venire calli persino sotto le ascelle. Non c’era angolo che non avessero esplorato nel raggio di duecento miglia in ogni direzione facendo venire una testa quadra a quei pochi anangu che avessero avuto il coraggio di fargli da guida. Imparando il linguaggio dei Pitjantjatjara e ascoltando tutti i canti che avevano “creato” fino al più piccolo sasso di quella remota regione.

Ogni luogo, secondo la tradizione aborigena, è stato creato nel dreamtime, il tempo prima del tempo, dal canto di uno dei grandi spiriti totemici. Il canto ne è la storia ma allo stesso tempo l’atto della creazione, come se la storia stessa fosse creatrice dei luoghi che l’hanno ispirata, all’interno d’un tempo che non è solo passato, ma anche presente e futuro. Un tempo fuori dal tempo nel quale ogni anangu, ogni essere vivente ed ogni cosa esiste ed esisterà per sempre.

Ogni aborigeno faceva parte del proprio canto prima ancora d’esser nato e continuerà a farne parte dopo la sua morte. Il tempo, in fondo, è solo un’esperienza soggettiva, ben diversa dalla realtà oggettiva nella quale ogni cosa esiste ed è creata nel medesimo momento.

La prima volta che Enrico aveva sentito uno dei canti creatori del mondo s’era immaginato di essere arrivato su Tralfamadore, ed il fatto che non fosse servita una navicella spaziale ma solo un normalissimo volo di linea lo aveva talmente eccitato da costringerlo a camminare per due giorni interi nel mezzo di quell’oceano rosso-arancio in continua lotta col cielo blu. Si era ricordato dei tempi della scuola, da bambino, quando l’insegnante di artistica aveva spiegato i colori complementari. Quella visione era la migliore spiegazione che tutto il creato potesse mettergli a disposizione. Quei due colori: l’arancione ed il blu si erano dati appuntamento nientemeno che all’orizzonte e da lì sembrava che guardassero stancamente gli avvenimenti terreni beandosi della loro magnificenza.

Su quel palcoscenico senza fine aveva fatto il proprio ingresso un timido attore, un rettile simile ad una iguana come Enrico non ne aveva mai visti prima d’allora. Era salito sulla punta d’una roccia, pronto a declamare i suoi versi, aveva guardato il pubblico, composto dal solo Enrico e dal vento, dritto nelle pupille e poi, forse troppo imbarazzato, era scappato via lasciando all’immaginazione le grandi verità che un momento prima era pronto a svelare.

Enrico aveva sorriso, gli sembrava di avere per la prima volta nella sua vita tutto lo spazio che desiderava da poter riempire di immaginazione. Tutto lo spazio e tutto il tempo, perché nella sua testa si andavano formando, senza parole e senza suoni gli antichi canti creatori del mondo. La dentro, in quella profondità dominata da colori ancora più sensazionali dell’arancio e del blu il suo tempo era finalmente uscito dal tempo.



Zani Ettore - Novembre 2008

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