Sara guardò in alto. Sul soffitto cominciava a ristagnare il vapore del bagno caldo. Già faticava a vedere, oltre la cortina, la plafoniera che illuminava la stanzetta. Dalle piastrelle colava umidità, raggiungeva la porcellana dei servizi, il rubinetto del lavabo, il coperchio alzato del water. Si era formato un laghetto sul bidet, dove stava il ripiano per far spazio alle manopole.
Sulla finestra avrebbe potuto scrivere il proprio nome con l’indice. Avrebbe potuto alzarsi, nuda, e muovere due passi per trovarsi proprio di fronte al vetro e guardarsi: avvolta nella nebbia quei pochi passi sarebbero stati carichi di sensualità.
Ma Sara non si alzò per scrivere il proprio nome alla finestra e nemmeno per farlo sulla specchiera. Si sentiva colpevole di quel pensiero, anzi, si sentiva colpevole di quel po’ d’eccitazione che le era entrata in corpo. Si trattava di quel piacere soffuso che si mischia all’indolenza delle membra, come tra il sonno e la veglia, quando non si avrebbe la forza di amare col corpo ma solo il desiderio di farlo: di sognare una carezza e darle intensità col semplice respiro.
Sara era sola in casa, avrebbe potuto allungare una mano e sfiorarsi, sapeva che nessuno l’avrebbe disturbata. Aveva il desiderio di farlo, la solleticava l’idea e tutto sembrava congiurare perché lei si concedesse quel piacere che, in fondo sapeva, era tanto innocente.
Ma Sara non spostò la mano da dove questa si trovava: dietro la nuca per sorreggere la testa e non lasciarla poggiare sulla dura superficie della vasca. Si rendeva conto che c’era nella sua pigrizia una nota ulteriore di piacere e desiderio. Avrebbe voluto sentire un corpo partecipe col suo di quella sensazione, ma nello stesso tempo lasciava, volontariamente, che tutto rimanesse semplicemente un desiderio inappagato. Rimaneva così appesa tra il punirsi e il protrarsi del piacere e le due cose assieme prendevano corpo dentro di lei. Si rese conto di quanto la colpa fosse legata al desiderio, di quanto inestricabili fossero le due sensazioni. Chiuse gli occhi, finalmente appagata, se non nel corpo nello spirito, e tuffò la testa sotto l’acqua rinserrando gli occhi come un bambino il primo giorno di piscina. Urlò là sotto tutto il piacere che avrebbe potuto provare.
Ne rimasero solamente delle bolle a vorticare sul pelo dell’acqua.Sulla finestra avrebbe potuto scrivere il proprio nome con l’indice. Avrebbe potuto alzarsi, nuda, e muovere due passi per trovarsi proprio di fronte al vetro e guardarsi: avvolta nella nebbia quei pochi passi sarebbero stati carichi di sensualità.
Ma Sara non si alzò per scrivere il proprio nome alla finestra e nemmeno per farlo sulla specchiera. Si sentiva colpevole di quel pensiero, anzi, si sentiva colpevole di quel po’ d’eccitazione che le era entrata in corpo. Si trattava di quel piacere soffuso che si mischia all’indolenza delle membra, come tra il sonno e la veglia, quando non si avrebbe la forza di amare col corpo ma solo il desiderio di farlo: di sognare una carezza e darle intensità col semplice respiro.
Sara era sola in casa, avrebbe potuto allungare una mano e sfiorarsi, sapeva che nessuno l’avrebbe disturbata. Aveva il desiderio di farlo, la solleticava l’idea e tutto sembrava congiurare perché lei si concedesse quel piacere che, in fondo sapeva, era tanto innocente.
Ma Sara non spostò la mano da dove questa si trovava: dietro la nuca per sorreggere la testa e non lasciarla poggiare sulla dura superficie della vasca. Si rendeva conto che c’era nella sua pigrizia una nota ulteriore di piacere e desiderio. Avrebbe voluto sentire un corpo partecipe col suo di quella sensazione, ma nello stesso tempo lasciava, volontariamente, che tutto rimanesse semplicemente un desiderio inappagato. Rimaneva così appesa tra il punirsi e il protrarsi del piacere e le due cose assieme prendevano corpo dentro di lei. Si rese conto di quanto la colpa fosse legata al desiderio, di quanto inestricabili fossero le due sensazioni. Chiuse gli occhi, finalmente appagata, se non nel corpo nello spirito, e tuffò la testa sotto l’acqua rinserrando gli occhi come un bambino il primo giorno di piscina. Urlò là sotto tutto il piacere che avrebbe potuto provare.
Sara non aveva una stagione preferita, per quanto, se ci avesse pensato ancora un poco, avrebbe dovuto ammettere che l’autunno le piaceva di più. Era la pioggia a generare il suo consenso, lei amava sentire le gocce cadere. Ogni superficie aveva un suono diverso ed allo stesso modo, immaginava, se fosse stata quella superficie avrebbe provato una sensazione diversa: morbida e setosa se fosse stata legno, fredda come un brivido se fosse stata la lamiera di un tetto, oppure viscida come un lombrico impazzito se fosse stata il vetro di una finestra.
Una goccia che scende zigzagando a destra e sinistra come una matta, lasciando una scia che si sarebbe velocemente asciugata. Se fosse stata vetro avrebbe lasciato alla pioggia l’onere di scriverle sul corpo un romanzo d’impalpabile e liquido piacere.
Eppure all’uomo che le stava di fronte rispose che non aveva una stagione preferita.
Forse perché la domanda l’aveva colta impreparata, o perché in qualche modo si vergognava di mostrare sul volto il perché di quella che sarebbe stata la sua risposta, come se il motivo per cui una cosa ci provoca più piacere di un’altra fosse condannabile, come se fosse condannabile la sua sola ombra.
Ma l’uomo non ci fece caso, continuò a parlare di sé dopo non aver ricevuto risposta a quell’innocua domanda e racconto qualche aneddoto banale.
Sara si ritrovò seduta al tavolo di un ristorante, di nuovo sola perché quell’uomo che aveva di fronte aveva smesso di contare qualcosa per lei. Guardava oltre la finestra il cielo rabbuiarsi e qualche nuvola farsi sotto, pronta ad esigere la propria brontolosa parte nella rappresentazione che di lì a poco avrebbe invaso le strade.
Pioverà disse, e l’uomo si fermò imbronciato tra una parola e l’altra guardandola stranito. Stava parlando delle passate vacanze in Tunisia, stava parlando di un solleone da capogiro, stava parlando, parlando, parlando.
La luna la colse sprofondata nel letto. Colpa del materasso vecchio e della rete troppo morbida. Sara avrebbe dovuto comprare le doghe per quel letto già da un mese ma ancora non si era decisa a prendere la macchina per fare quei chilometri che la separavano dal negozio di arredamenti.
Un filo di luce le rischiarava i fianchi, appena abbozzati nella loro forma capiente sotto le coperte. Un ragnetto faceva la tela scivolando dal soffitto fin sopra il comodino, a pochi centimetri dalla sua testa. Le mani nel sonno vagavano tra le coperte: ripiegavano tra i seni asciugando qualche goccia di sudore, grattavano dietro la schiena dove le lenzuola soffocavano la pelle. Sembravano operai del turno di notte quelle mani che lavoravano alacremente. Governate di una mente che dorme, da un capo che non vigila, potevano lavorare per il puro piacere di farlo.
D’un tratto quelle mani si sciolsero e divennero acqua. Trasformatesi in rivoli di pioggia partirono dal ventre e scesero dietro la schiena, poi risalirono, seguendo il torace fino a fianco del petto dove crebbero come una marea che sale, che man mano riempie gli spazi mentre tutto il resto affonda, una marea che crebbe fin quando i seni non furono due scogli sommersi e da lì una diga proruppe. Sara era zuppa di pioggia in quel suo letto sprofondato per il peso del corpo e di tutta quell’acqua. Un fiume le lambiva le cosce rinfrescando la pelle. Un lago le crebbe nel ventre e la riempi fino a farla gemere nel sonno.
Infine le mani si rinsaldarono al resto del corpo, l’acqua evaporò d’un tratto com’era venuta e della colpa non si vide alcun’ombra sul viso sereno di Sara.
Solo la luna aveva potuto vedere cos’era il piacere senza il peccato, nessun uomo sarebbe stato capace di fare altrettanto, nessuno.
Poi, anche la luna, si coricò dietro una collina.
Zani Ettore - Ottobre 2005
2 commenti:
C'è tutta la tua essenza di poeta psicologo in questo racconto intimista :)
Un saluto.
eh eh, mi piace la definizione...
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