
Eravamo sempre seduti l’uno di fronte all’altra. Lei sulla sua seggiola grande, accanto alla finestra ed io vicino al tavolo con alle spalle la macchina per cucire di mia madre. Ambedue potevamo guardare fuori, oltre i vetri e perderci ognuno nei propri pensieri che erano tanto diversi, ma che sono l’unica cosa che ci ha legato finora. Oltre la sua morte che ai miei occhi di bambino rimase lontana, poco più di un appunto da prendere sulla vita, scribacchiare sul taccuino dei ricordi e sotterrare sotto una pila di tanti altri foglietti scribacchiati che, in qualche modo immaginavo, sarebbero venuti poi.
Ines parlava della sua vita da giovane, di quella povertà che non ho conosciuto, di quei dolori portati dalla guerra che parevano tanto un avventura incredibile. Raccontava i luoghi in cui da bambina era pastorella e li vedevo come un arcadia lontana con tanta luce. Posti dai nomi dialettali che si confondevano, e non uno me n’è rimasto in testa ad oggi, anche se sono gli stessi posti che potrei visitare ancora facendo una passeggiata tra i monti della mia vallata. Ero attratto irresistibilmente invece dal trasparire dei suoi sentimenti, forse perché in altre situazioni mi era così difficile cogliere in lei una sfumatura emozionale, forse perché con quella voce a tratti sostenuta di chi ha vissuto quanto racconta diventava la miglior narratrice con cui potessi aver a che fare.
Nel suo mondo passato vivevano personaggi dai nomignoli buffi, i soliti matti del paese che si trascinavano tra le case con la loro pazzia e non c’era verso che fossero presi in serietà dalla gente se non attraverso quella: una famigerata pazzia che sapeva di scontato già dopo poco, perché erano gli scemi del villaggio senza madre e senza lavoro, ubriaconi per forza di cose e che ci vuoi fare, un poco strambi per natura. In contrasto i Signorotti, quei pochi con i soldi che vivevano in città e l’estate s’allietavano dell’aria di montagna. Ho conosciuto un giorno una di queste “Signore” dei ricordi di mia nonna. Viveva a Milano durante la seconda guerra e scappò in fretta e furia dalla città per non morire di fame o sotto le bombe. Aveva un fratello, però, che rimase nel capoluogo per finire l’università. Fu lui che le raccontò poi di quei mesi assurdi, in cui la fame era sempre compagna di sventure e pareva sghignazzare carezzandoti coi suoi strani pensieri. Vidi questa signora nella sua casa ad E*, dove andammo a trovarla io e mia madre qualche anno fa. Aveva quasi novant’anni e ci saluto cordiale con uno dei più bei sorrisi da vecchia che mi ricordi. La sorella era morta da pochi giorni e lei ce lo disse con voce sicura, convinta forse dentro di se di poterla raggiungere a breve.
Era semplice nella sua vecchiaia e nel tono delle sue parole riconobbi tanto entusiasmo che col tempo s’era trasformato, ma non saprei dire in cosa. È una magia che ancora non ho assaporato quella della vecchiaia e per quanto m’affascini ammetto di non aver fretta di gustarla. Me la immagino, forse, come una cucchiaiata di veleno che sorseggiamo, avvinti dalla dolcezza che si prova, consapevoli che tutto finisce, prima o poi, come mai lo siamo stati. Un limbo di certezza in cui si lasciano alle spalle i sensi di colpa per quel veleno che lecchiamo avidamente dai bordi del cucchiaio. Un lampo di luce che c’illumina bambini, intenti a leccarci i baffi un’ultima volta, e poi chissà.
Quando mia nonna Ines rendeva onore a quel rituale mattutino dei capelli ero avvolto da tanti fantasmi, non credo che vi sia altro modo di immaginarmeli. Per lei erano ectoplasmi di ricordi e per me spiritelli di fantasia che a mano a mano andavano a dar vita al mio mondo interiore, evolvendosi come tutte le forme di vita. Incorporei forse, ma decisamente vivaci. Tenaci anche, nel voler resistere al tempo trasformandosi in qualcosa di nuovo attraverso la mia piccola mente di bambino.
Con un piccolo sforzo posso ancora sentire il profumo di quell’acqua di colonia e vedere attraverso i suoi occhi la storia più triste: la storia di un addio, com’è quasi ovvio che sia. La storia di mio nonno chiamato alle armi, che in uno dei tanti mattini di montagna si trincerava sotto le coperte di un grande letto. Un letto matrimoniale da poco inaugurato, con la fretta di chi sa che il tempo non gli basterà, lo sente nelle ossa perché tra le valli gira una brutta voce, si va in guerra e chi va in guerra lascia le mogli, chi va in guerra non torna a casa, sposa la patria o qualcos’altro, non importa.
Per questo mio nonno rimaneva avvolto in quel tepore e posso cercare d’ascoltare quel silenzio che brama creare nella sua testa per espandere gli attimi e dimenticarsi del tempo. Ma i pensieri si fanno strada, non si riesce a fermarli, sono troppo forti e lo caricano come un battaglione intero richiamandolo alla realtà, costringendolo ad afferrare con entrambe le mani quel calice di dolore che gli hanno riempito per chissà quale motivo. Ma chi ha mai voluto esser un Cristo in croce e bere quella spugna imbevuta di fiele? Il sapore di quella domanda giunge fino a me attraverso l’eco del profumo dell’acqua di colonia. Poi le grida isteriche di Ines e di sua madre che cercano di convincerlo ad alzarsi dal letto. Deve partire, deve dire addio a quelle donne, loro glielo impongono perché i carabinieri arriveranno e fucileranno i disertori, non c’è più rifugio per lui tra le montagne più alte, è troppo tardi. Deve affrontare una vita che non ha voluto e quelle donne devono dirglielo, devono, anche se preferirebbero prendere un coltello dalla dispensa e ferirsi ogni centimetro di corpo, strapparsi i capelli ad uno ad uno.
Mio nonno partì. Mori in Russia durante la seconda battaglia ma il suo nome venne scritto su carte lontane e rimase chiuso a chiave in cassetti segreti per lungo tempo.
Ines mi parlava in quelle mattine e cullava dentro se una speranza che sapeva vana. Preferiva pensare che suo marito si fosse dimenticato di lei e avesse una nuova moglie in chissà quale angolo d’Europa, piuttosto che costringersi a vederlo morto nella pozza del suo sangue. Un tramonto rosso nel cielo bianco della neve gelata.
Mio nonno partì salutando una neonata in una culla. Era mia madre. Chissà se ebbe la forza di dirle addio?
Zani Ettore – Gennaio 2004
Ines parlava della sua vita da giovane, di quella povertà che non ho conosciuto, di quei dolori portati dalla guerra che parevano tanto un avventura incredibile. Raccontava i luoghi in cui da bambina era pastorella e li vedevo come un arcadia lontana con tanta luce. Posti dai nomi dialettali che si confondevano, e non uno me n’è rimasto in testa ad oggi, anche se sono gli stessi posti che potrei visitare ancora facendo una passeggiata tra i monti della mia vallata. Ero attratto irresistibilmente invece dal trasparire dei suoi sentimenti, forse perché in altre situazioni mi era così difficile cogliere in lei una sfumatura emozionale, forse perché con quella voce a tratti sostenuta di chi ha vissuto quanto racconta diventava la miglior narratrice con cui potessi aver a che fare.
Nel suo mondo passato vivevano personaggi dai nomignoli buffi, i soliti matti del paese che si trascinavano tra le case con la loro pazzia e non c’era verso che fossero presi in serietà dalla gente se non attraverso quella: una famigerata pazzia che sapeva di scontato già dopo poco, perché erano gli scemi del villaggio senza madre e senza lavoro, ubriaconi per forza di cose e che ci vuoi fare, un poco strambi per natura. In contrasto i Signorotti, quei pochi con i soldi che vivevano in città e l’estate s’allietavano dell’aria di montagna. Ho conosciuto un giorno una di queste “Signore” dei ricordi di mia nonna. Viveva a Milano durante la seconda guerra e scappò in fretta e furia dalla città per non morire di fame o sotto le bombe. Aveva un fratello, però, che rimase nel capoluogo per finire l’università. Fu lui che le raccontò poi di quei mesi assurdi, in cui la fame era sempre compagna di sventure e pareva sghignazzare carezzandoti coi suoi strani pensieri. Vidi questa signora nella sua casa ad E*, dove andammo a trovarla io e mia madre qualche anno fa. Aveva quasi novant’anni e ci saluto cordiale con uno dei più bei sorrisi da vecchia che mi ricordi. La sorella era morta da pochi giorni e lei ce lo disse con voce sicura, convinta forse dentro di se di poterla raggiungere a breve.
Era semplice nella sua vecchiaia e nel tono delle sue parole riconobbi tanto entusiasmo che col tempo s’era trasformato, ma non saprei dire in cosa. È una magia che ancora non ho assaporato quella della vecchiaia e per quanto m’affascini ammetto di non aver fretta di gustarla. Me la immagino, forse, come una cucchiaiata di veleno che sorseggiamo, avvinti dalla dolcezza che si prova, consapevoli che tutto finisce, prima o poi, come mai lo siamo stati. Un limbo di certezza in cui si lasciano alle spalle i sensi di colpa per quel veleno che lecchiamo avidamente dai bordi del cucchiaio. Un lampo di luce che c’illumina bambini, intenti a leccarci i baffi un’ultima volta, e poi chissà.
Quando mia nonna Ines rendeva onore a quel rituale mattutino dei capelli ero avvolto da tanti fantasmi, non credo che vi sia altro modo di immaginarmeli. Per lei erano ectoplasmi di ricordi e per me spiritelli di fantasia che a mano a mano andavano a dar vita al mio mondo interiore, evolvendosi come tutte le forme di vita. Incorporei forse, ma decisamente vivaci. Tenaci anche, nel voler resistere al tempo trasformandosi in qualcosa di nuovo attraverso la mia piccola mente di bambino.
Con un piccolo sforzo posso ancora sentire il profumo di quell’acqua di colonia e vedere attraverso i suoi occhi la storia più triste: la storia di un addio, com’è quasi ovvio che sia. La storia di mio nonno chiamato alle armi, che in uno dei tanti mattini di montagna si trincerava sotto le coperte di un grande letto. Un letto matrimoniale da poco inaugurato, con la fretta di chi sa che il tempo non gli basterà, lo sente nelle ossa perché tra le valli gira una brutta voce, si va in guerra e chi va in guerra lascia le mogli, chi va in guerra non torna a casa, sposa la patria o qualcos’altro, non importa.
Per questo mio nonno rimaneva avvolto in quel tepore e posso cercare d’ascoltare quel silenzio che brama creare nella sua testa per espandere gli attimi e dimenticarsi del tempo. Ma i pensieri si fanno strada, non si riesce a fermarli, sono troppo forti e lo caricano come un battaglione intero richiamandolo alla realtà, costringendolo ad afferrare con entrambe le mani quel calice di dolore che gli hanno riempito per chissà quale motivo. Ma chi ha mai voluto esser un Cristo in croce e bere quella spugna imbevuta di fiele? Il sapore di quella domanda giunge fino a me attraverso l’eco del profumo dell’acqua di colonia. Poi le grida isteriche di Ines e di sua madre che cercano di convincerlo ad alzarsi dal letto. Deve partire, deve dire addio a quelle donne, loro glielo impongono perché i carabinieri arriveranno e fucileranno i disertori, non c’è più rifugio per lui tra le montagne più alte, è troppo tardi. Deve affrontare una vita che non ha voluto e quelle donne devono dirglielo, devono, anche se preferirebbero prendere un coltello dalla dispensa e ferirsi ogni centimetro di corpo, strapparsi i capelli ad uno ad uno.
Mio nonno partì. Mori in Russia durante la seconda battaglia ma il suo nome venne scritto su carte lontane e rimase chiuso a chiave in cassetti segreti per lungo tempo.
Ines mi parlava in quelle mattine e cullava dentro se una speranza che sapeva vana. Preferiva pensare che suo marito si fosse dimenticato di lei e avesse una nuova moglie in chissà quale angolo d’Europa, piuttosto che costringersi a vederlo morto nella pozza del suo sangue. Un tramonto rosso nel cielo bianco della neve gelata.
Mio nonno partì salutando una neonata in una culla. Era mia madre. Chissà se ebbe la forza di dirle addio?
Zani Ettore – Gennaio 2004
2 commenti:
tu sai quanto io apprezzi la tua prosa sensibile e variegata, ma lasciami dire una battutaccia circa il brano appena letto: ecco, alfine, da dove si dipanano le radici della tua gerontofilia...;-)))
eh eh... si devo dire che il rapporto amore-odio con mia nonna è un leit motif di molti racconti che ho scritto...
non saresti male come psicanalista ^__^
PS hai visto che SF ha riaperto?
una lista più fornita di editor e abolizione del cool per ora, poi si vedrà come vanno le cose, se ci sono i presupposti per migliorare ulteriormente le cose con un progetto più ampio...
bai bai
Ettore
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