lunedì 16 giugno 2008

Storia di un carillon

Avevo tre anni. Non dovrei ricordarmi di questo, o almeno così si dice. Si dice che i ricordi della primissima infanzia siano fasulli, ricostruiti. Un parto della nostra mente nel quale inserire i significati di mille altri ricordi. In fondo, non importa se sia vero o meno, perché le immagini sono così vivide che ancora mi pare di poter toccare quel vecchio carillon.
Ero alto un mezzo metro buono, le mani paffute, gli occhi bagnati di pianto e una pancia rotonda da bambino che spuntava dalla maglietta che mio padre cercava disperatamente di tenere nei pantaloni, e quel carillon era talmente bello: un parallelepipedo panciuto, color del mogano, con gli intarsi più chiari.
Quando si sollevava il coperchio usciva una ballerina francese, io almeno la immaginavo così avendo sentito dire a mia madre che carillon era una parola francese.
Questa ballerina girava in tondo al ritmo di una musichetta sconosciuta ed aveva il viso bianco, esangue ma lucido e brillante come le stelle di notte, un vestitino rosa e le scarpette blu. Ho cercato più volte di scoprire quale fosse il motivo al cui ritmo ballava la piccola francesina di ceramica, ma non vi sono mai riuscito, anche perché non riesco a riportarlo interamente alla memoria, la melodia rimane confusa e ogni volta che cerco di riafferrarla si mescola inesorabilmente ad altre canzoni conosciute con cui nulla ha a che spartire, tranne forse attraverso i percorsi irraggiungibili della mia mente.
Si trattava del pegno d’amore di mio nonno alla nonna ed era caro a mio padre, soprattutto da quando i suoi genitori non c’erano più. Entrambi avevano lasciato questo mondo in anticipo rispetto alle attese. Il nonno, che fu l’ultimo ad andarsene, morì che io avevo sei mesi e di lui ho solo il ricordo di qualche fotografia che con mia madre sfogliavo quando si apriva il grande album di famiglia. Nella casa c’erano tante piccole reliquie intoccabili che mi facevano morire d’invidia ma era il carillon, sopra ogni altra cosa, il vero oggetto dei miei desideri.
Lo tenevano sempre sul cassettone della camera da letto, appoggiato alla parete, in modo che non vi potessi arrivare. Ne vedevo soltanto uno spicchio, così che il mio desiderio s’allenava a crescere nella sconfitta.
I tentativi si susseguivano sempre più disperati: mi alzavo sulla punta dei piedi, cercavo di arrampicarmi sui cassetti o provavo a portare qualche sedia in camera senza farmi vedere da mia madre, cosa ovviamente impossibile. Una volta presi tutti i vestiti che riuscii a raggiungere nell’armadio e li ammonticchiai per terra coll’intento di salirvi sopra. L’unico risultato fu una caduta rovinosa ed un bernoccolo che non seppi spiegare a mia madre, quindi mi misi a piangere. Quando trovò nell’armadio i vestiti che avevo riposto in fretta e furia, vedendoli sporchi e calpestati, capì tutto e mi chiamo in camera per mettermi di fronte alla mia marachella. Non cedetti però, non confessai mai. Mia madre si arrabbiò ma non ebbe cuore di punirmi.
Era un giorno di sole, quello del mio ricordo più vivido. Io ero disteso sulla punta dei piedi sforzandomi il più possibile per raggiungere il carillon sul cassettone della camera dei miei genitori.
Quel giorno, mio padre non era andato al lavoro e per qualche motivo della sorte aveva preso ed ascoltato il carillon senza poi rimetterlo al suo posto. Lo aveva invece lasciato proprio ai bordi del cassettone, dove allungando le mani e spingendomi con tutto il corpo potevo raggiungerlo con la punta delle dita. Non riuscivo ad afferrarlo, eppure lo carezzavo. Prima con gli occhi, poi finalmente con i polpastrelli. Cercai di farlo scivolare di lato, così che un angolo sporgesse al di fuori del pianale, ed a quel punto riuscivo a poggiare quasi tutto il palmo della mano. Ero pieno di gioia e l’eccitazione mi si scioglieva in bocca come panna montata. La sentivo densa tra la lingua ed il palato, col retrogusto amaro di un inascoltato senso di colpa.
C’era qualcosa di magico nella parola “No” quando era pronunciata da un grande. Mi bloccava in tutto il corpo, legandomi con funi invisibili di cui mi meravigliavo. Quando mio padre diceva quella parola magica, sprofondavo nelle sabbie mobili. Triste per non poter fare quello che volevo, nemmeno provarci, ed allo stesso tempo affascinato per quel potere che mi sculacciava. Non faceva male, non come una sculacciata vera ma il dolore era innegabile, ed assomigliava, stranamente, a quella stessa consistenza semi solida che avevo in bocca mentre al colmo dell’eccitazione cercavo di prendere tra le mani il carillon.
Vedevo ormai uno dei piedini di sostegno spuntare dal cassettone sopra la mia testa, mi sentivo capace di raggiungerlo con le mani, di farlo scivolare ancora di più oltre il bordo per tenerlo, poi, sospeso sui palmi.
Immaginarmi mentre lo abbassavo pian piano, tenendolo in equilibrio col massimo sforzo, perso nella venerazione ed allo stesso tempo lucido come non mi era mai capitato nella mia breve e incosciente vita, era la realizzazione di qualcosa cui nemmeno ora potrei dare un nome perché non era un semplice desiderio, non era un capriccio o un bisogno. Era forse un sogno, come da adulti non si è più capaci di farne perché si è coscienti di cosa si è e di cosa si può essere.
Ma io, coi miei tre anni, ancora non ero vincolato nell’abbraccio folle di questa camicia di forza. Le cose, le persone e i pensieri vagavano liberi in un mondo i cui confini andavano ben al di là di quelli che più tardi mi avrebbero circondato. Tutto era possibile ma non per un giochetto di fantasia. Tutto era possibile veramente! anche se non uno dei miei desideri avrebbe potuto davvero avverarsi, nel singolo momento invece lo era. Il presente era enormemente più denso, più carico, e poteva stillare secondo dopo secondo sotto forma di gocce di miele. Un miele denso e buono, che sembrava non si dovesse mai staccare dal cucchiaio, mai lasciarlo veramente. E quando infine lo faceva, perché doveva pur cadere, si dimenticava in fretta, prima ancora che avesse terminato la sua folle corsa verso il regno delle gocce passate. Si dimenticava perché già un’altra goccia, se possibile ancor più densa e zuccherina, aveva preso il suo posto.
Crescendo, la consapevolezza che tutte quelle gocce infine cadono e raggiungono lo stesso, etereo, vuoto del tempo, ci distrae. Guardiamo la goccia cadere e continuiamo a guardarla all’infinito perché non c’è fine a quel pozzo verso cui sprofonda. Il miele si scioglie, si mischia con l’acqua e perde sapore, gocciola sempre più veloce, mentre il nostro sguardo languisce lontano.
Si diventa grandi nel guardare verso quel fondo che non c’è. Parole che prima non esistevano assumono significato, parole come illusione, realtà, impossibile, finito ed infinito.
Prima la vita era una palla all’interno della quale esistere, e quella palla era il presente. Si potrebbe credere che fosse una sorte meschina, imprigionati nell’inconsapevolezza del tempo. Ma dentro quella palla, c’era tutto. Lo spazio era denso e la densità infinita.
Forse guardare oltre il ciglio di quel burrone, crescere, non ci rende più liberi. Eccoli, Adamo ed Eva, scacciati dal paradiso che rivivono in ogni bambino il quale inesorabilmente si spinge oltre il presente e rinuncia alla sua infinita palla. Entra in uno spazio che illusoriamente crede più grande ma poi, realizzato d’essere solo un uomo, impara a ragionare secondo regole che gli si impongono, si lega a leggi che non ha voluto, cade negli abissi di un inferno qualunque seguendo il destino di una goccia di miele che non può smettere di cadere.
Quando mio padre entrò nella stanza il carillon sembrava un equilibrista sulle mie mani mentre cercavo di portarlo al petto, ma lo trattenevo: non avrei mai lasciato cadere una cosa a me tanto cara.
Urlò quel suo “No” così perentorio da far cedere i muri del mio essere bambino, ebbi un soprassalto e il carillon cadde. La ballerina francese in mille pezzi sul pavimento.
Quella fu la prima crepa della mia palla di presente ed anche se altre ne sarebbero seguite continuo a considerarla la più importante.
Quel “No” aveva agito da punteruolo, il primo colpo sul blocco di marmo a forgiare un uomo nella roccia, a plasmarlo secondo regole che non avrebbe voluto ma che ci sono, a fargli comprendere che esistono dei confini e aprire la strada ad un desiderio nuovo, fatto non di semplice amore, ma anche di consapevolezza tradita.
Eppure mio padre non ne ha alcuna colpa, né quelle leggi le ha scritte lui. Forse davvero un qualche Adamo ed Eva hanno tradito la fiducia di un dio, in un lontanissimo passato. La nostra colpa soggiace con la loro e con loro siamo stati scacciati dal paradiso, ma come loro dobbiamo conoscere ciò a cui si è rinunciato.
La palla si rompe, il mondo ci esplode in faccia pieno di domande che non abbiamo mai chiesto e quanto rimane del sogno è una sottile cicatrice appena arrossata da carezzare dolcemente sotto i polpastrelli, un ricordo che non sapremo mai quanto sia davvero nostro.


Alle elementari un bravo maestro fu la prima persona a farmi capire come la terra, il nostro pianeta, fosse sferica. Lo rincontrai molti anni dopo, al funerale di mio padre. Ricordammo assieme alcuni momenti del passato ed io gli raccontai di come fui felice quando compresi che la terra era tonda.
- Perché? - mi chiese.
- Perché Dio ci ha scacciati dal paradiso terrestre vietandoci di tornare indietro. Ma in fondo sapeva benissimo che continuando a camminare avanti alla fine ci saremmo semplicemente tornati.



Zani Ettore – Dicembre 2005 (Ottobre 2007)

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