domenica 3 febbraio 2008

La ventiseiesima morte


Dovrebbe esserci la notte, là fuori, Oltre la finestra, dove le tende sporche si mischiano al fumo delle sigarette nel grigio più intenso che si possa immaginare. Ma che importa. Le due persone stese sul divano non se lo ricordano più.

Una, quella con la gamba rigirata ed il piede infilato sotto la coscia, quella che si dondola e vorresti dirgli di smetterla, sembra un cucciolo che si ciuccia il pollice. Si chiama Steve e viene da un posto tra il quartiere portoricano e quello indi. Veste della roba in stile Are Krishna che gli scivola addosso come acqua sporca. Una tunica larga poco adatta a coprire le impudicizie.
Il suo compare lo guarda, di tanto in tanto, con una punta di commiserazione malcelata. Si tratta di Ghigo, uno spagnolo trapiantato nella city. Ex artista di strada, ex spacciatore di crak, ex carcerato con tanto di numero tatuato sul braccio. Un po’ ex di tutto, ed un po’ di niente perché niente gli è mai durato abbastanza. Almeno fino a quando ha scoperto la nuova via. È vestito con una giacchetta di pelle nera e degli stivali a punta. Lucido dalla testa ai piedi, gli occhi neri e profondi delle lenti da sole al posto di quelli veri, un po’ acquosi, che stanno nascosti.

- Ehi, quante volte hai detto che ti sei ammazzato tu? - Fa Steve, rompendo il silenzio.

- Venticinque.

- Cazzo.

Gli occhi di Steve si riempiono di puntini di sospensione per sottolineare la sua vera stima. Venticinque volte! Un record. Non ha mai conosciuto nessuno che lo abbia fatto venticinque volte! Lui stesso si è fermato a tre. Questa è la quarta.

Ghigo continua a lanciare occhiate indispettite verso quel compagno di attesa che la sorte gli ha riservato. Un vero pivello, pensa. Uno che non ha capito un cazzo di quello che stanno facendo.

Guarda verso la finestra, mentre spegne il mozzicone schiacciandolo col piede sul pavimento. Vorrebbe alzarsi per scostare un attimo la tenda, vedere se fuori c’è tutto quel buio che lui ama ma è troppo stanco, e poi potrebbero chiamarlo da un momento all’altro; allora si guarda attorno per rendersi meglio conto di dove si trovi. Lo ha fatto in tanti di quei posti ormai che la cosa non ha nessuna importanza ma, se deve aspettare, tanto vale cercare di passare un po’ il tempo.

La sala d’aspetto della clinica è illuminata da una luce gialla, liquida e sporca; si mescola al verde della tappezzeria sulle pareti come l’acqua stagnante di una palude, piena di alghe e stracci buttati via. Non c’è nulla oltre a quel divano sul quale sono seduti. In fondo è un posto come un altro. Probabilmente domani già non esisterà più.
Quello che devono fare è illegale. Alcuni lo definiscono la nuova droga del secolo ma Ghigo sa la verità, sa che si tratta di metodo e di potere; chi la pensa diversamente non ha capito nulla.
Tiene le gambe divaricate in avanti e appoggia con le spalle sulla parte bassa dello schienale, spingendo in avanti col culo. Cerca di mettersi comodo ma l’impresa è impossibile e lo sa bene. Si volta per osservare il compagno; davvero non c’è nient’altro da fare. Steve non aspettava che questo per riprendere a parlare.

- Perché così tante volte? – domanda

Ma porca puttana che domanda scema, pensa Ghigo, come se si domandasse ad uno perché è nato. O perché mangia ogni giorno. Il ragazzino intunicato che ha di fronte non è tanto differente da tutta quella gente che muore una volta sola. Quei borghesucci idioti che accettano la fine, inconsapevoli di cosa si tratti. Incapaci di comprendere e controllare la vera essenza dell’esistere. Cazzo deve spiegargli tutto a quel pivello. Ma come?

- Che cazzo di domanda è – finisce per dire.

Steve si affloscia di colpo, gli occhi si spengono e non dice più una parola.

- Senti ragazzo, io credo che tu non abbia davvero idea di cosa stiamo facendo – l’accento spagnolo gli sfugge di bocca come un gatto che vede la porta socchiusa. Ghigo odia quando il suo accento fa capolino oltre la porta delle parole. Vorrebbe parlare un inglese perfetto ma non c’è mai riuscito. È davvero una pecca fastidiosa, una macchia sull’abito candido della sua esistenza perfettamente sotto controllo.

- Come non ne ho idea – sbotta Steve. – anche se l’ho fatto solo tre volte so perfettamente di cosa si tratta! Nella mia setta morire è un passaggio cruciale. Sono morto per trasmutare da allievo ad apprendista delle scritture e poi sono morto ancora per diventare…

Ghigo lo ferma piazzandogli la mano davanti al naso.

- Ehi ehi ehi, non me ne frega un accidenti della tua setta del cavolo ragazzo. Sto dicendo un’altra cosa, per Dio.
Senti, - cerca di ricominciare daccapo, - chi si ammazza non è una persona comune, sai, come tutti quelli là fuori, quelli nelle loro casette preconfezionate con lo stereo preconfezionato che ascoltano musica preconfezionata e jingle pubblicitari preconfezionati e via discorrendo.
Quella è gente che accetta il fatto che tutto gli vada a puttane sotto il naso senza metter mano ai coglioni. No, io non parlo di questo, e nemmeno parlo di stupide sette come la tua che immaginano un aldilà tutto confetti. Cazzo, preconfezionato pure quello.
Io parlo di controllo, amico. Di vero controllo.

Steve si morde le labbra, non può permettere a nessuno di parlare a quel modo della sua setta. Però, quel ragazzo che ha di fronte lo ha fatto per venticinque volte, il pensiero non gli si leva di mente. Forse vale la pena di starlo ad ascoltare anche se sa bene che è peccato ascoltare chi offende la setta.

Ghigo si è fermato per riordinare i pensieri, deve trovare le giuste parole e ordinarle per bene, sperando che l’accento non ricompaia rovinandogli tutto un’altra volta.

- Allora, la vita. Sai cos’è la vita tunicone?

- La vita è il frutto del signore nel nostro immacolato giardino – risponde a memoria Steve.

- Cazzo è? No, no, la vita ragazzo. La vita è un’essenza, una sostanza. Non ti sembra ma se ti c’impegni la puoi sentire, così – fa il gesto di afferrare qualcosa – tenendola stretta fra le mani. È bastarda la vita perché è essenza liquida e tenta di sfuggirti, colarti di tra le dita, ma se sei bravo, cazzo, se sei bravo puoi trasformare le dita in argini e le mani in dighe e tenertela stretta. Capisci? Possederla perché la controlli.
È questo che non capiscono i borghesi là fuori. Pensano che la vita non sia controllabile, ma per giove, vedi bene che tu ed io lo stiamo facendo, lo faremo fra poco quando ci apriranno quella fottuta porta e ci chiameranno. Andremo nella saletta qui accanto, ci stenderemo sul nostro bel lettino e ci faremo iniettare un cocktail di barbiturici da strizzare il culo come una spugna. Poi dopo cinque minuti la medicina di Jason. Ah Jason Larriet quanto ti amo per aver inventato la medicina! – la sua voce si scalda – Jason, pace all’anima sua, ha inventato lo strumento per controllare la vita, per risvegliarti dalla morte più arzillo di prima. È una botta della madonna ragazzotto. Della madonna. Ed ogni volta è meglio della precedente.

Ghigo rivolta gli occhi in alto, perso nel ricordo di tutte le resurrezioni passate. Steve affascinato dal comportamento del compagno si porta una mano sotto la tunica e comincia a carezzarsi dolcemente il pube. È stupendo, tra poco potrà morire e rivivere mentre adesso si rilassa ascoltando le parole invasate di quel ragazzo che lo ha fatto venticinque volte. Strizza le palpebre mentre viene sotto la tunica.

- Pezzo di merda – urla Ghigo. – mi hai sporcato! Ma che cosa hai nel cranio al posto del cervello? Idiota!
- No, - si difende Steve, - è tutto qui, sotto la mia tunica. La nostra tunica è il sacro guscio entro il quale il vero dio ci ha creati. Nulla di me può fuoriuscirne. – e intanto carezza la stoffa come se fosse la pelle della madre.

Ghigo lo guarda esterrefatto. Si è sparato una sega mentre lui riandava con la memoria ai momenti più belli della sua vita, ai momenti di controllo supremo. E quel ragazzo non sa tenere a freno nemmeno gli istinti più biechi. Questo stupido non è degno della medicina di Larriet, pensa. Anzi, lo urla.

- Porca puttana tu non sei degno di questo!

Steve s’alza dal divano, spaventato, e arretra fino alla finestra. Scosta la tenda con le spalle mentre indietreggia e Ghigo vede che fuori e notte, come sperava.

- Stronzetto voltati e guarda il buio. – ordina.

Steve lo asseconda terrorizzato.

- Apri la finestra. Senti l’aria frizzante della notte. Su, fallo.

Steve apre la finestra e dischiude le narici, è vero l’aria è piena di pensieri felici. Se non ci fosse il rumore della città che prepotente si infiltra nella sua coscienza, potrebbe davvero dire che Ghigo ha ragione, che la vita si può controllare. Che la felicità è dietro l’angolo e si può afferrare. Ma il suo maestro gli ha insegnato che le illusioni non sono la felicità, che la felicità è solo comprensione. Se ci si lascia dominare dalle illusioni si perde di vista la strada che conduce alla creazione.

Ghigo gli si avvicina. Il pivello è perso nei suoi pensieri e la notte lo ammanta lì dov’è, affacciato alla finestra con mezzo busto di fuori.

Lo prende all’altezza delle ginocchia e lo scaraventa oltre il parapetto.

Steve cade e pensa a quello che dice il maestro. Che le illusioni i sono pericolose. È vero. Le illusioni di tutti, anche le sue. Urla.

L’urlo si spegne nel crack sull’asfalto, sei piani più sotto.

È a quel punto che nella stanza, la porta si apre ed una improbabile infermiera entra chiamando a gran voce.

- Steve Deagle? Steve deagle, dov’è? E’ il suo turno.

- Non c’è, risponde Ghigo. Ha detto che non faceva per lui.

- Allora tocca a lei, signor?

- Alvarez, Ghigo Alvarez

L’infermiera sorride nascondendo il disappunto, il suo capo non sarà felice. Un cliente è andato perso. Vabbé rimane ancora questo, sembra in buone condizioni, pensa. Un altro maniaco del controllo o un altro folle seguace di sette piene di imbecilli. Ma non devono farsi illusioni. Questa volta sarà l’ultima che moriranno. Questa volta è per sempre. Poi i loro organi serviranno a persone più furbe di loro.
Mette una bella “x” sulla cartelletta e sorride di nuovo, più sollevata.

- Ha ragione, il suo nome è il prossimo della lista. Prego, mi segua.





Zani Ettore – Febbraio 2006

Nessun commento: