martedì 18 dicembre 2007

Itaca perduta

Socchiusi le palpebre alla luce brunita del sole autunnale, sentendo la spinta del vento sulla schiena. L’aria salmastra mi riempiva i polmoni, portando in superficie sensazioni nascoste.
Era l’odore del mare quello che sentivo?
Era davvero così intenso, così vivido?
Mi domandavo come fosse possibile che ancora provassi dei sentimenti per tutto questo, come fosse umanamente sopportabile. Mi urlavo addosso, mi graffiavo l’anima con i miei ricordi: “Possibile che il mio pensiero, come un gatto assassino, torni sempre a rimestare nella tana del topo?”
Mi stavo facendo del male, ne ero cosciente. Eppure non potevo impedirmi di aprire gli occhi sull’immensità delle acque, e coprirmi con le mani mentre guardavo il sole tramontare.
Uno alla volta, permisi che tutti i sensi si lasciassero irretire.
La vista, persa nei mille riflessi colorati generati dalle onde. L’udito, incantato dalla risacca come un serpente ipnotizzato. Il tatto, solleticato dalla salinità nell’aria e nella sabbia. Il gusto, compresso nell’angustia di una sete inappagabile, e infine l’olfatto, eccitato dall’odore indelebile di organismi morti millenni prima.
Tutto questo. L’oceano.
Poi lo feci, ancora una volta. Mi costrinsi a guardare.
Dal principio vidi un puntolino nero in cielo a nord-ovest, si notava appena per via del riflesso del sole sull’acqua ma in breve divenne più grande. Non lasciava alcuna scia e si muoveva ad una velocità impensabile. Mi accorsi di altri piccoli punti, provenienti da terra, che si dirigevano in quella direzione. Poi dei boati lontanissimi, racchiusi nel rumore delle onde, dispersi. Tante piccole scintille laddove prima c’erano i punticini che erano sopraggiunti e infine un gran silenzio.
Anche il mare pareva ammutolito.
Un’ombra iniziò a distendersi lungo la spiaggia, accarezzava la rena guadagnando metri su metri, anticipando la notte. Guardai in alto e vidi il cielo coprirsi. Il punticino, come una macchia d’olio tra le nubi, si era espanso, dallo zenit si profilava tenebroso fin verso l’orizzonte in tutte le direzioni.
A quel punto cominciò la fine.
Ancora una volta, vidi le acque dell’oceano ribollire e ne sentii il grido, mentre il vapore saliva verso l’alto. Un grido terribile, come per un estremo dolore, come se tutti gli esseri viventi che albergavano nei più profondi recessi marini si fossero svegliati nello stesso attimo ed urlassero, disperati per l’abbandono delle acque.
La sabbia si fece incandescente, il sole sparì senza alcun addio oltre il muro di oscurità sopra la mia testa.
Vidi pezzi di terra, pezzi interi di questo mondo staccarsi e rigirarsi su se stessi. Mi voltai in direzione della città e vidi che non c’erano più grattacieli, non più edifici, non più strade, ma solo le braci roventi di un camino che qualcuno aveva spento in un sol colpo. Vidi le mie mani strapparsi in brandelli ed avvertii rivoli di sangue calarmi sugli occhi. Era tutto buio, era tutto distrutto e finalmente persi i sensi.

Mi risvegliai sul pavimento in acciaio. Una mano calda mi toccava la spalla e una voce di donna mi sussurrò, piano, all’orecchio: “Sarà la decima volta questo mese che ti ritrovo qui, svenuto. Non credi che possa bastare?”
No, non bastava. Lo avrei urlato ma fu sufficiente voltarmi per vedere dentro i suoi occhi il mio stesso dolore.
Ci alzammo. Andai alla consolle di comando e chiusi il programma olografico.
Oltre le paratie trasparenti solo il freddo spazio.
Noi non dovevamo lasciare che accadesse, potevamo fermare tutto quanto ma non lo avevamo fatto, non ne eravamo stati capaci. Ci rimaneva solo l’immensità del cosmo il cui fascino era come quello degli oceani, ma più freddo, glacialmente infinito. La terra, intanto, malediceva i suoi figli attraverso il vuoto cosmico, ci malediceva per una guerra che avevamo voluto ma che non eravamo grandi abbastanza per conoscere.
L’umanità si era sentita importante dopo la scoperta dei viaggi spaziali, si era sentita degna dell’Olimpo. E invece erano bastati due giorni, due giorni per vedere un intero pianeta distrutto e fuggire, quei pochi come me che ne ebbero il modo. Ma sarebbe stato meglio morire là, quel giorno, sentire le carni disgregarsi e sciogliersi per le radiazioni, piuttosto che vivere questo presente.
Eravamo in diecimila per ogni nave, cinque navi per stazione orbitale, dodici stazioni orbitali su tutto il pianeta. Seicentomila dispersi tra gli angoli della galassia, seicentomila su più di dieci miliardi.
Eravamo i figli rinnegati di un pianeta che non viveva più, degli Ulisse senza Itaca, attratti in eterno da un canto di Sirena a cui non avremmo potuto resistere.


Zani Ettore - Novembre 2007

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