sabato 17 aprile 2010

domenica 28 febbraio 2010

La sala esperimenti





La voce nell’altoparlante lo svegliò da una sonnacchiosa attesa. Una voce calda e femminile.
- Il signor Shiffrin è atteso nella sala esperimenti.
Presente, Shiffrin sono io, pensò mentre si alzava dalla sedia scomoda sulla quale si stupiva di essersi addirittura appisolato.
Imboccò l’unico corridoio che aveva di fronte voltando la testa ora a destra ora a sinistra, per cercare con lo sguardo una targhetta che indicasse la sala esperimenti. L’ambiente non lo aiutava a ridestarsi, si sentiva immerso in un oceano bianco, leggermente fluorescente per via del riflesso delle luci al neon sulle pareti. In fondo al corridoio scorgeva una sagoma completamente bianca, come tutto il resto, e decise di dirigersi verso di essa.
Pensò che poteva essere anche in paradiso per quanto ne sapeva.
Il dottore che lo accolse, in effetti, aveva molto di angelico. Si trattava di un uomo estremamente alto, almeno dieci centimetri più di lui, gli occhi d’un azzurro intenso ed i capelli argentati, come se la vecchiaia lo avesse colto di sorpresa molto prima del tempo. L’uomo in realtà non dimostrava più di trentacinque anni.
Nel mezzo del cammin di nostra vita pensò Shiffrin che pressappoco aveva la stessa età.
Si fermò di fronte a lui ammiccando verso la porta, l’ultima a sinistra, che portava scritto a chiare lettere su di un cartello: “Sala esperimenti”
- Bene, eccomi qui. – disse.
- Già eccoci qui. – fu il laconico commento dell’arcangelo dottore. Davvero Shiffrin si aspettava di vedergli spuntare un paio di ali da un momento all’altro. Sperò che anche le dottoresse fossero della stessa pasta in quell’edificio. E sperò di poterne vedere qualcuna.
- entriamo? – domandò una volta passati cinque secondi di silenzio imbarazzato.
- certamente. – rispose l’uomo, e poi spinse la maniglia della porta spostandola di pochi centimetri verso l’interno della stanza. Si fermò di colpo, interrotto forse da un pensiero balenatogli nella mente o da un improvvisa dimenticanza.
- può aspettare un attimo, per cortesia? – chiese senza incrinare la voce neppure di una virgola.
- certamente. – Shiffrin si ritrovò a rispondere come il dottore poco prima, nel frattempo pensò che l’accoglienza non era il pezzo forte di quell’uomo che scompariva dietro la porta.
Rimase in attesa qualche minuto, fin quando una vocina nella sua testa non iniziò a sussurrare: dov’è finito?
Si guardò attorno. Nessuno. Solo il baluginare bianco etereo nel corridoio. Si immaginò di trovarsi sull’astronave della principessa Leyla nel film “guerre stellari”. Unico passeggero di una nave improvvisamente attaccata dall’impero, costretto a correre all’infinito lungo corridoi accecanti nell’attesa di schiantarsi contro qualche pianeta colonia.
La vocina alzò il volume: dove cazzo è finito?
Probabilmente si era addormentato come lui mentre aspettava. Oppure se ne stava a sbirciare dalla serratura le sue reazioni. Magari l’esperimento era proprio su quello. Volevano vedere dopo quanto tempo avrebbe iniziato a tirare calci contro la porta.
Intanto la vocina nella testa assomigliava sempre più a quella di sua madre che lo derideva: “ non sai neppure mostrare i coglioni, guardati, solo in un corridoio vuoto e una porta che non hai nemmeno il coraggio di aprire”
No, mamma, vedrai che i coglioni ce li ho, pensò. Ma si limitò a bussare timidamente.
Nulla.
Se da un lato il desiderio era quello di aprire la porta, d’altra parte la sua naturale timidezza gli impediva di farlo. Di sicuro avranno chiuso a chiave, si disse, io proverò ad abbassare la maniglia ma non succederà nulla.
Si immaginò il dottore angelico, sempre più diabolico, che lo sbirciava col sorriso sulle labbra o magari ridendo a crepapelle.
La vocina stava per riattaccare quando decise che era troppo. Con uno scatto afferrò la maniglia ed aprì. La porta non oppose alcuna resistenza, si spalancò docilmente rivelando una sala quadrata, bianca come tutto il resto, persino più luminescente, se possibile.
Quello che lo stupì, però, fu il fatto che era vuota.
Non vedeva nessuno all’interno, solo quattro pareti ed il nulla che contenevano. Avanzò di un passo, poi di un altro. Tanto valeva entrare a quel punto.
Quando fu al centro della stanza si girò su se stesso in direzione della porta e la vide.
Stava accanto allo stipite. Alta, altissima, con i capelli d’argento pure lei ed una serie di curve da far impallidire un curvilineo. Indossava un camice simile a quello del dottore di prima, ma più attillato, e sbottonato sul davanti come nel più classico dei sogni erotici.
- salve dottoressa. – fu l’unica cosa che riuscì a dire senza ingoiare la lingua.
- era ora – disse la donna per tutta risposta.
- mi stava aspettando? Ma… ma io non sapevo, il suo collega mi aveva detto di...
- non importa cosa le aveva detto il mio collega…
Shiffrin aspettò che lei finisse la frase ma si rese conto che non c’era più nulla da dire.
- l’esperimento? – domandò alla fine.
- è questo! - Rispose lei.
Se il dottore di prima era un angelo, la dottoressa era addirittura una dea. La sua pelle sembrava quella di una scultura d’alabastro, e non solo la pelle, pensò Shiffrin: ha un seno che neppure a martellate…
Si sentiva decisamente in imbarazzo. La dea aveva detto che l’esperimento era quello, ma quello cosa? Ed era finito quello? O doveva ancora cominciare?
Si impose di parlarle senza fissarla nel mezzo delle tette. Si accorse che era impossibile.
- ma in cosa consiste esattamente questo QUESTO?
- ma in QUESTO naturalmente. È lei che mi ha voluta qui, ed io sono arrivata.
- e il dottore?
- voleva anche lui?
Shiffrin non riuscì ad impedirsi di vedere una scena alquanto sconcia di lui con la dea e l’angelo che…
S’affretto a dire:
- no, no, non volevo anche lui, lei va più che bene.
Sì ma per cosa, si domandò.
- è importante rispondere a questa domanda lo sa vero? – la dea aveva preso a parlare di colpo senza che nessuno lo avesse chiesto. – ne va del destino di molte persone. Questa stanza è stata creata appositamente per trovare una risposta al quesito più importante di tutti. lei dovrebbe essere davvero orgoglioso di partecipare ad un esperimento simile.
L’uomo la guardò con aria interrogativa. Non aveva la più pallida idea di quanto stesse dicendo e per di più non riusciva a smettere di immaginarla in abiti sempre più succinti. La parte antica ed animalesca del suo cervello continuava impazzita a produrre ormoni. Si impegnò al massimo per evitare un’erezione imbarazzantissima.
Quando lei prese a sbottonare il camice rivelando la biancheria intima, Shiffrin avvampò in volto, con il corpo tutto contratto ed i denti digrignati. Sembrava un cane bastonato folle dalla paura di venire bastonato ancora.
Non gli piaceva quella situazione, o meglio, gli piaceva da matti, d’altronde come avrebbe potuto non piacergli quanto vedeva. Ma, certamente era tutta una presa per i fondelli e non era il caso di lasciarsi andare. Desiderò ardentemente non essere lì, in quella sala asettica e angosciante. Quanto avrebbe voluto che tutto quello succedesse veramente: una donna bellissima solamente per lui, pronta a donarglisi, e magari attorno a loro uno chalet di montagna, un camino ed un letto caldo, con le coperte già scostate. Un letto pronto ad accogliere corpi caldi e voluttà a non finire.
Ma ora, ora che fare?
- signorina, cosa fa? – cercò di dire.
- quello che mi hai chiesto – rispose lei, poi gli si avvicinò posandogli una mano sugli occhi.
Gli sussurrò nell’orecchio:
- solo quello che mi hai chiesto.
Quando si scostò e lui riaprì gli occhi lei era nuda. Completamente. Eppure Shiffrin la degnò di un solo, singolo sguardo; era piuttosto quello che stava dietro di lei che ora lo stava facendo impallidire.
Indietreggiò di un passo nel vedere il camino, gli cascò la mascella per terra nel vedere il letto.
Cosa stava succedendo?
La dea sfoderò il migliore sguardo malizioso, e gli si rivolse indicando il letto.
- andiamo?
Sembrava un ordine, non una domanda.
Shiffrin cercò istintivamente una risposta nella vocina odiosa della madre, ma scoprì che neppure lei aveva una risposta per una simile situazione. Lasciarsi andare allo stimolo, alla voglia, al desiderio o fermarsi a ponderare i fatti? Avrebbe voluto sapere; sapere qualcosa di più riguardo tutta quella storia. Che razza di esperimento era?
- ma come, non lo hai ancora capito? – disse la dea.
Aveva le tette più belle dell’universo fu costretto ad ammettere Shiffrin, e il culo? Ah che culo…
- cosa? – si ridestò, - cosa non ho capito?
- l’esperimento. Davvero non hai capito di cosa si tratta?
- beh, no. - Disse lui abbassando gli occhi. Si sentiva come alle elementari quando il maestro lo prendeva in castagna.
- la risposta alla domanda, è questo che cerchiamo.
- e qual è questa benedetta domanda, si può sapere?
La dea lo guardò come un folle, o come un bambino, Shiffrin non avrebbe saputo dire quale dei due.
- ma cosa vogliamo veramente, no? Non te ne sei accorto? quando hai incontrato il dottore hai desiderato di vedere una donna altrettanto bella, poi quando mi hai vista hai desiderato di fare l’amore con me, fin dal primo momento. Volevi essere in questo posto, ed ora ci siamo, infine hai desiderato di sapere cosa ci facevi qui ed io te l’ho detto.
- vuoi dire che tu realizzerai tutti i miei desideri?
- tutti! ma non io. Come posso? Io stessa sono un tuo desiderio.
- ma a che serve tutto questo?
- vogliamo vedere cosa vuoi veramente. Quando ti fermerai e non avrai più nuovi desideri allora avremo trovato quello che cerchiamo.
Shiffrin era incredulo. La cosa non aveva senso ma pensò che se avesse desiderato la cosa più assurda e impossibile avrebbe certamente avuto una conferma di quanto stava succedendo. Eppure aveva già visto apparire una stanza dal nulla, come avevano fatto? E chi?
- è un ologramma tutto questo vero? - Domando alla dea.
- adesso apro la porta e mi ritrovo nel corridoio da ospedale di prima.– nel dirlo già si era diretto alla porta e l’aveva aperta. Fuori scendeva la neve, lenta e regolare. Aveva già imbiancato i rami degli alberi.
Richiuse la porta.
- ah ecco.
La dea gli si avvicinò. Sembrava pronta ad afferrargli i fianchi e tirarselo addosso per giocare a cavalluccio. Poi si arrestò a metà della strada che la divideva da lui.
- mi vuoi allora, Si o no?
- sì certo che sì, ma… ma anche no. – disse.
La dea pareva confusa.
- insomma quello che vorrei davvero adesso è sapere come avete fatto a leggermi nei pensieri.
- oh – esclamò la donna. – abbiamo solo ascoltato. Certo che fai delle domande strane tu. E hai anche dei desideri strani.
Il sorriso di lei fu l’ultima cosa che Shiffrin riuscì a vedere prima del calore avvampante che gli riempi il corpo. Non importava più di nulla ormai, né di dove si trovava né di come o quando. Prese la dea tra le proprie mani e si immagino scultore nel rimodellarne le linee con le proprie mani avide. Fece l’amore con lei e tutto sommato ne usci estremamente soddisfatto.

Scoprì in breve che desiderare le cose era piuttosto facile. Non uno dei suoi desideri era rimasto inesaudito. Che fosse a riguardo del sesso - e ne aveva avuti molti da esprimere in tal senso - o che fosse una semplice voglia bislacca. Voleva una torta di ciliegie e questa appariva, si immaginava spaparanzato su una sdraio al sole dei Caraibi ed ecco che già era là. Bastava chiudere gli occhi per un secondo.
La dottoressa era venuta e poi andata, ricomparsa, sparita di nuovo, scambiata con altre donne, rosse o more, bionde, coi capelli tinti di viola, a pois. Non importava perché ogni cosa era possibile, bastava volerla.
Si era reso conto che cercare il desiderio più strano lo riempiva di gioia. Si trattava di una sensazione estremamente semplice eppure eccitante più ancora della cosa desiderata. Coma da ragazzo erano le piccole trasgressioni a catalizzare le sue voglie, e acquistarne la consapevolezza lo aveva divertito come se ora fosse lui stesso a condurre l’esperimento. Era curioso di vedere fino a che punto sarebbe arrivato. Non si preoccupava più di coloro che, sicuramente, lo stavano guardando nascosti da qualche parte.
Probabilmente il suo era solo un sogno ed, in effetti, non poteva essere altrimenti, come spiegare se no le mutazioni apparentemente magiche di quella stanza? Poteva tramutarsi in qualsiasi luogo, lo aveva accuratamente constatato. Aveva pranzato al ristorante sulla cima della Tour Eiffel, mangiato un gelato in galleria Vittorio Emanuele a Milano, poi passeggiato lungo Oxford street e fatto shopping a New York. Infine era passato a luoghi più esotici scoprendo che Matchu Pitchu in estate è davvero favolosa, che la primavera olandese riempie il cuore di colori, che la pampa argentina è un luogo stupendo per cavalcare in solitaria. Si era fatto traghettare sul Nilo in compagnia delle donne più belle e con loro era giaciuto all’ombra delle piramidi. Non aveva mai desiderato di diventare ricco, in fondo lo era già. E nemmeno aveva desiderato tornare alla vita normale anche se da qualche parte nel fondo della sua coscienza rimaneva il dubbio che tutto prima o poi sarebbe dovuto finire. Non aveva idea però di quando questo dovesse avvenire ed in quale modo.
Passò un mese, o perlomeno gli parve che il tempo fosse quello. D’altronde gli bastava desiderare che fosse notte per dormire e immaginare un sole caldo al suo risveglio, e se a pranzo gli veniva voglia di fare il romantico poteva benissimo desiderare di cenare con la luna piena per poi tornare in pieno pomeriggio in riva al lago a leggere poesie.
Quando si rese conto che il tempo stesso era piegato al suo volere gli tremarono le gambe. Era in quella stanza da un mese ma non se ne era mai reso conto. Si domandò se fosse immortale e desiderò parlare con la dea.
Voleva sempre lei quando aveva bisogno di spiegazioni, non che vi fosse un motivo particolare ma, per così dire, le si era affezionato.
- ciao – la salutò.
- ciao – gli rispose la donna.
Lui aveva preso a chiamarla Eva, immaginando di essere il suo Adamo. Si trattava di uno stupido gioco, uno come un altro che aveva inventato per passare una giornata.
- Eva, dimmi. Io sono immortale?
- cosa vuoi dire? – Eva non era sicura di avere inteso bene la domanda, spesso succedeva quando lui era troppo diretto e non le lasciava il tempo di leggere i suoi pensieri
- beh, ho notato che posso desiderare di vivere la notte o il giorno indifferentemente, per cui il tempo segue le mie regole. Insomma non sono più in suo potere.
- in effetti è così, puoi comandare il tempo ma non puoi fermare il suo scorrere. Il tempo passa comunque che tu lo voglia o no.
- quindi sto invecchiando comunque da quando sono qui dentro? - Domandò, anche se non era rivoltò ad Eva, la domanda era più che altro una sua constatazione personale.
- sì, stai invecchiando – rispose la dea.
Era sempre più bella pensò lui. Poteva desiderare qualsiasi donna ma Eva era diventata senza che lo volesse la sola persona con cui si sentiva bene.
Le persone d’altronde gli mancavano. Le persone vere, quelle che non erano frutto della magia o del potere della stanza. Le persone da cui si sarebbe potuto aspettare qualsiasi cosa, quelle che non erano sottoposte alla sua volontà ed anzi, spesso lo stupivano perché non era mai stato bravo a comprendere gli altri.
Era “solo” nella sala degli esperimenti, ma non desiderò nulla a riguardò, per ora Eva gli bastava. Accantonò il pensiero in un angolo della mente e si rimise a ragionare sul tempo.
- dimmi Eva. Posso desiderare di diventare immortale, di fermare il tempo?
- Provaci – fu l’unica risposta di Eva.
Era facile prevedere le risposte di Eva o degli altri personaggi della sala. Erano sempre brevi, coincise e perfette. “Ovvie” era il termine giusto.
- già hai ragione, ci proverò – disse Shiffrin, e nel medesimo momento desiderò di essere l’assoluto padrone del tempo, di poterlo fermare a suo piacimento e di non dover mai più invecchiare.
Non successe nulla, ma in fondo che doveva succedere? Si era immaginato l’altissimo scendere dai cieli e fustigarlo col fuoco sacro della divinità ma in fondo quello era un sogno no? O per lo meno, credere che fosse tutto un sogno gli evitava di porsi troppi problemi.
- ebbene? – chiese ad Eva.
- cosa?
- sono immortale ora?
- sì, lo sei. – pronunciò Eva, con un sorriso compiacente.

Lui si ritenne soddisfatto e desiderò di fare l’amore come la prima volta che l’aveva vista. Fu un attimo e lo Chalet di montagna ritornò a circondarli con la propria atmosfera calda e accogliente. Il camino sfrigolava da un lato ed il letto aveva le coperte leggermente scostate per accogliere i loro corpi.
Fecero l’amore. Quando fu finito lui si ritrovò a pensare che non era propriamente quella la cosa che intendeva dicendo che voleva fare l’amore con lei come la prima volta. Si trattava di altro che voleva anche se non riusciva a definirlo esattamente, a dargli un nome.

Essere immortale aveva i suoi lati positivi. Oltre al fatto di non dover morire mai, che non era poca cosa, il fatto che il tempo per lui non passasse portava con se altre opportunità. Per esempio la barba non cresceva più e non c’era bisogno di radersi, o ancora non sentiva il bisogno di dormire anche se a volte lo faceva per pura abitudine. Molte delle cose che nella sua vita normale sembravano obbligate ora erano semplicemente dei suoi capricci da bambino. Dormire, veder crescere la barba, mangiare non erano più un passaggio obbligato. Erano cose che faceva per abitudine, solo perché per tanto tempo le aveva fatte che, ora, rinunciarvi gli costava fatica.
La cosa buffa era che da quando era diventato padrone del tempo aveva scoperto di averne moltissimo a disposizione senza sapere bene che farci. Desiderava poter parlare con qualcuno ma le persone che gli apparivano non erano quelle che davvero si immaginava. Erano solo altri personaggi dell’esperimento che sarebbero spariti appena lui lo avesse desiderato. Si sentì disorientato di fronte a questa nuova scoperta. Come era successo per il tempo, si trattava di una cosa a cui mai aveva pensato veramente, tranne una volta in cui, però, aveva abbandonato il pensiero quasi per paura di affrontarlo.
Come suo solito chiamò Eva.
Quando la donna apparve nella sua solita bellezza, lui pensò che in qualche modo l’amava. Era diventata la sua compagna d’avventura e la consapevolezza che anche lei fosse solo un personaggio della sala lo opprimeva ed angustiava prepotentemente. Scacciò il pensiero un’altra volta. Infine le chiese:
- Eva, vorrei parlare con qualcuno
- dimmi, sono qui.
- no, non è con te che volevo parlare – disse Shiffrin con la voce un po’ incrinata
- allora perché mi hai voluta? Domandò lei.
- perché… no, senti. Non è questo che volevo. A dire la verità non è che sappia bene cosa voglio. È che ho un pensiero.
- quale? - Cercò d’informarsi Eva.
- allora, non è facile spiegarmi sai? Quello che voglio è parlare con qualcuno, ma non qualcuno qualunque, cioè sì. Ma non come succede sempre. – Si sentiva desolato per la sua incapacità ad esprimersi, eppure il pensiero gli pareva così chiaro solo un attimo prima.
- non ti capisco – disse Eva, accorgendosi che lui non aveva le idee chiare.
- Eva, cazzo! Sentimi, se io parlo con te non è come parlare con una persona vera. – dirlo gli era costato una enorme fatica.
Non a lei, non avrebbe dovuto dirlo a lei.
Desiderò parlare con qualcun altro ma appena Eva sparì comprese che il suo desiderio non era reale. Non desiderava DAVVERO che Eva se ne andasse.
Eva tornò.
- insomma, non ti capisco, cosa succede? – disse appena riapparsa dal nulla.
Lui rise. Rise proprio di gusto, sentendosi per la prima volta prigioniero in una gabbia dorata.
- no, senti. Sai cosa voglio? Voglio andarmene da qua!
- e dove vuoi andare? – domandò Eva.
- come dove voglio andare. Via. Via da qui. Voglio tornare a casa.
- ok!
Eva sorrise ancora una volta con quel suo fare compiacente che lui trovava delizioso. Questa volta però la sensazione che ne ebbe fu meno idilliaca. Sporcata dalla verità che infine aveva dovuto accettare: si era innamorato di una donna che non esisteva.
La poltrona di casa sua lo avvolse improvvisamente. Si ritrovò seduto di fronte al televisore acceso che trasmetteva il Grande Fratello. Lo spense immediatamente pensando che se era tornato al suo mondo non era certo per imbottirsi il cervello di stupidaggini.
Vagò per un attimo con la mente nei ricordi. Aveva abbandonato il sogno di qualunque essere umano. Avere tutto. Tutto ciò che desiderava. E aveva rinunciato. Non capiva se doveva provare sollievo o prendere a testate il muro.
Al momento però, l’unica cosa che desiderava era un bagno caldo per schiarire la mente.
Andò in bagno e aprì il rubinetto della vasca. L’acqua era deliziosamente tiepida. Né troppo calda né troppo fredda. Strano pensò. A casa sua non era mai successo che l’acqua uscisse alla temperatura giusta, e per forza con il boiler vecchio di cinquant’anni che si ritrovava.
Ma che importa si disse, mentre entrava nell’acqua. Per una volta che le cose andavano bene non era il caso di rovinarle con sciocchi pensieri. Si sentiva sollevato alla fin fine. Ripensandoci era tutta una pazzia.

Si era trattato davvero di un sogno. Certo, mentre guardava la televisione si era appisolato e aveva sognato tutto. Ecco cosa succede a guardare tv spazzatura si disse. Si fanno gli incubi.
Quando riemerse, un’ora più tardi, allungò la mano verso l’ampio asciugamano che teneva a bordo vasca. Era tiepido e non intirizzito come sempre per l’umidità del bagno.
Era proprio alla temperatura che avrebbe desiderato.
Il pensiero lo fulminò all’istante.
- Eva? – chiamò a mezza voce.
La donna apparve in mezzo alla stanza, era seminuda come al solito e come sempre bellissima.
- che c’è? – rispose alla chiamata.
Lui avrebbe voluto sprofondare nell’oceano più profondo, ma si ricordò in tempo di rimangiarsi il desiderio.
Scoprì di essere infinitamente triste.
- Eva perché sei qui? – domandò implorante.
- perché mi hai chiamato, e io sono venuta.
Lui si ricordò che Eva aveva già detto quella parole, la prima volta che l’aveva veduta.
Quanto tempo era passato dall’inizio dell’esperimento? Forse qualche secolo, ma non importava perché era padrone del tempo, per lui il tempo non esisteva, era come se non fosse passato un solo secondo. Allora perché si sentiva così stanco?
Eva rimaneva ferma in mezzo al bagno in attesa che lui le parlasse. Sembrava che attendesse di venire desiderata come donna. Come se fosse pronta a gettarsi tra le sue braccia e baciarlo e darsi a lui con tutto il corpo, ma non potesse farlo fino a quando lui non l’avesse desiderata. Si riempì di rabbia. Avrebbe tanto voluto vederla prendere a testate la porta solo per il gusto di farglielo fare.
Lei lo fece senza battere ciglio.
Osservò attentamente quella donna bellissima obbedire al suo comando e ne provò pietà.
- fermati Eva – disse sconsolato.
- non c’è bisogno che tu faccia sempre quello che io desidero. Lo capisci questo?
- devo farlo – rispose lei – è l’esperimento. Tu sei fortunato perché ci permetterai di rispondere alla domanda più importante, cioè…
- basta Eva! Lo so. – stava urlando, nudo e bagnato in mezzo alla stanza con l’asciugamano gettato da un lato, ancora tiepido, così come lui lo aveva desiderato.
- non capisci Eva? Non capisci cosa desidero REALMENTE?
- dimmelo e sarai esaudito.
Lui rise.
- bene, vediamo se sarò esaudito allora. L’ho chiesto prima ma non ci siamo capiti a quanto pare. Eva, io desidero…
si fermò, certo, lui desiderava che tutto finisse ma d’altra parte desiderava anche rimanere accanto ad Eva. Lei era lì di fronte a lui con quel suo sguardo smarrito, ed era bellissima.
Guardò il suo corpo di donna. Pieno e maturo come un frutto imbevuto di sole. I suoi occhi profondi. Anche il naso di Eva gli pareva un miracolo del cielo, bello come una goccia d’acqua che cola dalle piante in un mattino di rugiada.
Come avrebbe dovuto fare?
- Eva, sai che non so cosa desidero?
- eppure sento che c’è qualcosa che vuoi – ammiccò Eva cominciando a togliersi di dosso quei pochi indumenti che le restavano.
- Oddio Eva – rise tra i denti guardandola. – sì ti voglio, ma per dio… non ora, non è questo che voglio adesso capisci? Adesso quello che vorrei è trovare una soluzione.
- a cosa? – gli chiese Eva.
- A te, per esempio.
- cosa c’è in me che non va? Mi vorresti diversa?
- ti vorrei vera. – disse lui, ma in qualche modo già sapeva che non era possibile. Anche se, forse… bastava provare.
- Eva – disse, - ora voglio che mi ascolti attentamente. Desidero che tu faccia parte del mondo reale. Il mondo, mi hai inteso? Quello vero, quello che non ha a che vedere con l’esperimento. Quello dove le persone non ottengono tutto quello che desiderano se non a costo di enormi sacrifici, e dove spesso, a dire il vero, nemmeno così lo ottengono. Voglio che tu smetta di essere solo un personaggio di questo stupido gioco o esperimento o qualunque cosa sia. Voglio che tu smetta di fare parte della sala esperimenti e diventi una persona reale, come lo sono io. Come lo ero almeno prima che iniziasse l’esperimento. Hai capito?
- sì disse lei – il suo sorriso era il solito, compiacente, felice di obbedire. Eppure era anche triste. Lui ne era quasi certo. Eva era triste di doversene andare. Forse il suo desiderio era già stato esaudito. Poi Eva scomparve.
Ed ora, pensò, veniamo a noi.
- desidero, - disse ad alta voce per dare maggior risalto alle parole, - desidero smettere anche io come Eva di fare parte di questo esperimento e tornare nel mondo reale. Hai capito? Non so chi tu sia che tiri le fila di questa cosa, ma io desidero così.
Il bagno sembrò dissolversi nel nulla. Si ritrovò nella sala esperimenti così come l’aveva vista la prima volta. Bianca e piena di luce. Abbacinate come un sole pallido d’inverno.
Sono a casa? Si chiese fra se e se.
- sono a casa? - Urlò a nessuno.
- non lo so.
Il dottore arcangelo. Era di nuovo lui.
- allora è tutto finito! – gioì. – è davvero tutto finito. Adesso uscirò da quella porta e sarò libero.
- libero? Da cosa? – chiese l’arcangelo.
- ma da tutto questo, da tutto questo desiderare e volere e ottenere e… da tutto questo insomma.
- e smetterai di desiderare? - Chiese l’arcangelo. I suoi capelli argentei riflettevano la luce della stanza. Era quasi doloroso per gli occhi guardarlo dritto in volto.
- cosa? – non capiva il senso della domanda che gli era stata rivolta. - che ti importa se desidererò ancora dottore?
- se desidererai allora l’esperimento non sarà finito. Ricordi? Per sapere cosa vuoi davvero abbiamo solo un modo. Aspettare che tu non abbia più altri desideri.
Rimase di sasso. Allora non era finito nulla. Sarebbe potuto uscire da quella stanza ma non sarebbe cambiato assolutamente nulla. Il mondo reale non era certo più reale che la sala degli esperimenti. avrebbe continuato a desiderare, già adesso desiderava di nuovo Eva. Gli mancava tantissimo. E continuando a desiderare l’esperimento non sarebbe mai terminato.
Sarebbe rimasto per sempre prigioniero del suo potere immenso e nessuno sarebbe stato davvero reale di fronte a lui. Solo una espressione delle sue voglie, solo un personaggio, un contorno, un abitudine, un passatempo.
- cosa vorresti ora, dimmi. Sento un pensiero ma non riesco ad ascoltarlo. Dimmi e verrà esaudito. –
l’arcangelo sembrava una statua con le mani rivolte al cielo, un angelo accondiscendente alla volontà del signore. La sua assomigliava tanto ad una preghiera.
Ma che razza di dio sono io, pensò Shiffrin, un dio a cui chiedere dei desideri.
No. Lui non era dio né poteva esserlo. Non aveva senso sostituirvisi. Gli era rimasto un solo modo per far terminare l’esperimento. Ma davvero quella era la risposta? Si sorprese a pensare quasi divertito.
Gli sembrò un’enorme beffa. Guardò il dottore arcangelo con un sorriso pieno di cinica rassegnazione.
- sai cosa desidero dottore? – disse con odio e nello stesso tempo con amore, perché quell’arcangelo dai capelli argentei era come Eva, della stessa pasta come aveva desiderato lui qualche millennio prima. Adesso Eva era nel mondo, in mezzo a miliardi di altre persone e questo lo rendeva felice anche se non l’avrebbe mai raggiunta. Che importa, pensò, non importa più nulla. Però sono felice si ripeté, sono felice per lei.
– sai cosa desidero, davvero? – chiese infine.
L’arcangelo lo guardò stupito. Aveva già letto nella sua mente ed aveva capito.
- sarà così, allora.
Shiffrin si accasciò a terra, morto.
La sala degli esperimenti si oscurò, le luci si spensero, la porta scomparve. Rimase solo il buio.
L’esperimento era finito.



Zani Ettore – Febbraio 2006

lunedì 18 gennaio 2010

Ecco, comincia a mancarmi il calduccio dell'estate.

In fervida attesa che arrivi la nuova macchina fotografica, qualche scatto da Barcellona...








martedì 12 gennaio 2010

Cielo di vetro



Certi giorni aveva la sensazione di non poter fare altro, in quella città, che contare i passi tra un albero e l’altro, percorrendo il controviale come sempre, diretto ad una casa dal sapore stantio. Una casa che non lo è del tutto, ma che per lo meno si avvicina all’idea. Sette, otto, nove, dieci, undici. E poi di nuovo: uno, due, tre, quattro e via così. L’aria stanca della sera tra i capelli.

Amare la città è un brutto segno, indice di una relazione difficile fin dal principio. Come con certe donne, o ragazze, preferiva ancora chiamarle ragazze, che riescono ad attirarti come sirene nonostante tutto, nonostante quel no che senti crescere dentro. Non è il caso, non sarebbe, ma che importa. E così lui camminava. A volte a testa bassa seguendo il profilo dei palazzi con la coda dell’occhio, certe altre più spedito. Erano le volte che inforcava le cuffie e qualche musica gli infondeva una sicurezza, tanto ipocrita quanto melodrammatica, di piacere a qualcuno, per forza, come un assioma della vita che tra quel brulicare di persone ce ne fosse una, una speciale, da riassumere anche in un solo sguardo e poi bearsene per i prossimi dieci passi. Per questo contava. Trovava interessante poter suddividere, senza sapere bene cosa. La vita? L’esistenza? L’amore? Procedere lungo il cammino frazionando ogni cosa. Se ne fosse valsa la pena si sarebbe fermato, in una di quelle sere, a guardare in alto, oltre i tetti delle case, immaginandosi di calare da lassù come un velo nero di rancore. Perché amare la città vuol dire rimanerne delusi. Viaggio dopo viaggio, albero dopo albero, e poi sotto terra, dove lo sferragliare dei treni ti assorda, e poi sopra, dove la puzza degli autobus ti infiamma le narici, e poi in mezzo al nulla, in quello spazio tra l’anima e l’uccello, dove una prostituta ti chiede da accendere guardando di sottecchi se val la pena di abbassare la lampo della giacca o tenerla chiusa.

La tenne chiusa. Lui aveva già ripreso la strada.

La verità è che non sempre vedeva tutto così buio, anzi il più delle volte erano i sorrisi ad arrivargli agli occhi, per la strada, sugli autobus, erano i padri soli che delicatamente svegliavano la figlioletta per dirle che era ora di scendere, la madri sbuffanti in attesa di un aiuto per salire quei maledetti gradini con la carrozzella ed il soffio di un grazie tra le labbra quando l’ottenevano. O i ragazzini all’uscita dalle scuole, capaci di mescolare tutti i loro accenti, come le loro puzze adolescenziali, in un enorme melting-pot al retrogusto di big bubble.

Eppure, quella sera dei sorrisi non rimaneva un gran ricordo. Si erano persi senza fare troppo rumore, come assopiti, e lui non se ne curava. In metropolitana aveva assistito ad una scena che gli dava da pensare. Non lo aveva urtato e nemmeno indignato, si chiedeva se dovesse esserlo, però non era quello il punto. Non riusciva a giudicare del bene o del male di quanto aveva visto. Sentiva, come si sente un sassolino nella scarpa, che semplicemente non avrebbe potuto. No, non era quello il punto. Non era una morale che sinceramente si stava scordando di innaffiare, era piuttosto la consapevolezza della solitudine ad avvinghiarlo, a prenderlo letteralmente per le palle.

La cosa che aveva fatto quella donna non la rendeva buona o cattiva; la rendeva sola, dannatamente sola in mezzo ad un mare di altre donne o uomini pronti a fare lo stesso, o simili, in qualche altra dimensione di quella stessa città. Come se non ci fossero due angoli in tutto il creato che condividessero lo stesso piano.

Avevano un qualche futile valore, allora, tutte le motivazioni, i perché, i pregressi sconosciuti che l’avevano portata là, dietro quella colonna, a infilarsi un sacchetto di cellophane, raccattato in fretta dai rifiuti, sotto i pantaloni, dentro le mutandine, fin dentro la vagina, riempito in fretta di dio solo sa quale droga?

Più se lo domandava e più si rendeva conto che non gli interessava sapere se avesse bisogno di soldi, se fosse povera o ricca, se dovesse sfamare una crisi d’astinenza o semplicemente la propria avidità, se avesse a casa un figlio a cui dare da mangiare o un marito dalla mano pesante. A lui non fregava un cazzo di tutto questo. L’unica cosa importante era sentirne la solitudine e rendersi conto che anche lui la condivideva, che non c’era motivo al mondo per cui le parti non potessero essere invertite. Che tutte quelle condizioni su cui si stava interrogando erano come fiocchi di neve caduti da un cielo di vetro, la cui violenta casualità nel cadere era dovuta a null’altro che a quella fottuta solitudine.

Sette, otto, nove… e poi un ultimo passo fino al cancello. Si chiese se avrebbe potuto fare qualcosa, non per quella donna o forse anche. In generale, ma poi infilò la chiave e i pensieri scomparvero. Qualunque cosa facesse non era comunque abbastanza. Quasi mai. Il segreto era continuare a farla e sperare, nel frattempo, che i sorrisi si svegliassero in fretta.





Ettore Zani – Gennaio 2010

sabato 28 novembre 2009

Arrivano


Filippo fischiò dalla strada alle tre del pomeriggio.
Mi affacciai alla finestra. Gridò: “Arrivano”.
Fu come osservare un quadro al museo. Un cielo azzurro da sbatterci la testa e sul fondo qualche puntino nero che, non sai perché, immagini denso di significati.
Come ogni anno. Arrivano. Gridò.
Non ristetti molto al davanzale e presi le scale per correre alla palude con Filippo. Pochi istanti e i tuoni sarebbero esplosi dentro le nostre orecchie. Lunghe fucilate provenienti dalle casupole nascoste sotto le frasche. Filippo ed Io ci mettemmo a gridare con tutta la forza. “Qua qua qua, via di qua anatre! Via di qua stupide.” Attorno, i colpi di fucile come fiori che sbocciassero troppo in fretta, petali rossi che si aprivano nei petti delle anatre lassù nel cielo. E per terra noi due. Dieci anni. Dieci secondi. Ci rincorremmo in tondo aprendo le ali piumate spuntate tra le braccia, attenti a non farci scorgere dai cacciatori appostati più avanti.
Poi gridai: “Se ne vanno”. Filippo fece di sì col capo e mi sorrise.
Prendemmo la via verso la foce del fiume prima che qualcuno potesse vederci. Verso il mare. Si vedeva da lontano il mare, oltre lo specchio dell’acqua che scivolava sotto i nostri piedi. Piedi giganti ed enormi di bambini soddisfatti, persi fra i giunchi e i batuffoli di vegetazione della palude.
Il sole sembrava calare in fretta. Invece rimaneva appeso lì per delle ore.
“Domani stai di guardia tu”, mi disse Filippo.
Io feci di sì col capo.
Non c’era bisogno di aggiungere altro.


Zani Ettore - Aprile 2006